A Severo succedono i due figli Caracalla e Geta. Sbarazzatosi del fratello e divenuto imperatore unico, Caracalla (211-217) tenta di mettere al sicuro la legittimità del suo potere ricorrendo ad un vecchio stratagemma, la divinizzazione, anche se ultimamente esso ha mostrato di funzionare poco. Si identifica perciò col dio sole e si atteggia a monarca orientale. Ma non gli basta. Infatti, dopo aver concesso la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, vuole emulare Alessandro il Grande e si lancia in una impossibile conquista del mondo. Gli piacerebbe essere ricordato come il dispensatore della cittadinanza universale. Purtroppo per lui, non riesce a realizzare il suo disegno, e anzi la morte in una congiura, ordita dal prefetto pretorio Macrino (217-8), che gli succede. Poi è la volta di Eliogabalo (218-222), un personaggio dai modi effeminati, anch’egli invasato dalla fede nel dio sole, che viene trucidato dai suoi soldati. A chiudere la dinastia severa è Alessandro Severo (222-235), un giovane di personalità debole e succube della madre Giulia Mamea, che, tutto sommato, governa con moderazione. Viene ucciso dai soldati di Gaio Giulio Vero, detto “il Trace”, che diventerà imperatore col nome di Massimino I. Chi è costui?
Massimino I (235-238) è un uomo di umili origini (figlio di un contadino goto e di una donna alana), che ha intrapreso la carriera militare iniziando da soldato semplice. Di corporatura alta e massiccia, Massimino incarna la figura del tipico soldato, semplice, rude e pragmatico. Poco incline all’arte politico-diplomatica, alle formalità burocratiche e ai sottili giochi di potere, egli disprezza il senato, come del resto anche il senato prova bassa stima per lui e gli è ostile. Dal momento che popolazioni barbare minacciano l’impero, Alessandro Severo avverte il bisogno di un esercito forte e affida a Massimino, un valente soldato, il comando delle reclute, affinché ne faccia dei prodi guerrieri. E sono proprio queste reclute che uccidono Severo insieme a sua madre e proclamano imperatore Massimino, il quale, non avendo altra legittimazione che le spade dei suoi soldati, punta tutto sulla forza, dimostrando invero delle buone qualità di condottiero. In più occasioni sconfigge le orde barbariche di Germani, Sarmati e Daci, ma, per sostenere le crescenti spese militari, si vede costretto ad imporre nuove tasse, che carica soprattutto sui più ricchi esponenti della classe senatoria, i quali rispondono nominando un altro imperatore. Massimino muove allora col suo esercito alla volta dell’Italia, ma, durante la marcia di avvicinamento, i suoi stessi soldati, che si vedono sottoposti ad un impegno molto gravoso in cambio di poche gratificazioni, stanchi e affamati, lo uccidono (238).
Con Massimino ha inizio un periodo di anarchia militare e di guerra civile, che si protrarrà fino al 284, mentre, nel contempo, l’impero deve difendersi da nuovi attacchi da parte dei barbari e dei persiani. In questo periodo, i generali e altri uomini influenti, tentano la scalata al trono, come se fosse una bella tavola imbandita o una splendida torta, che ognuno vuole tutta per sé. In pochi anni, ad indossare la porpora di imperatore, si succedono Gordiano I (238), un ricco proprietario terriero, il di lui figlio, Gordiano II (238), i patrizi Balbino (238) e Pupieno (238), Gordiano III (238-244), nipote di Gordiano I, tutti morti assassinati o in azioni di battaglia. Poi è la volta di Flilippo l’Arabo (244-249), un uomo senza scrupoli, accusato di avere ordito l’assassinio del prefetto del pretorio e di Gordiano III, dei quali ha preso il posto. Il suo intento è quello di fondare una propria dinastia, ma, nella lotta per il potere, si scontra con il generale Traiano Decio, che lo sconfigge e lo uccide, succedendogli.
Decio (249-51) è consapevole che bisogna fare qualcosa per sollevare l’impero dalla crisi che lo divora. È convinto che bisogna innanzitutto rendere stabile il potere e, a tal fine, si propone di fondare una dinastia. È convinto altresì che un maggiore coinvolgimento dei cristiani potrebbe costituire un primo passo verso la ripresa. Decide allora di verificare la loro fedeltà all’impero e, a tal fine, emana un editto che impone ad ogni suddito di offrire un sacrificio agli dèi di Roma davanti ad un’apposita commissione, che rilascia a quanti accettano uno speciale libellus, cioè salvacondotto. Chi si rifiuta, invece, viene punito con la tortura, la confisca dei beni, la prigione e perfino la morte. È l’inizio di una dura persecuzione dei cristiani, molti dei quali rinnegano la propria fede: sono chiamati lapsi, ossia “caduti” nell’idolatria. Ma i cristiani costituiscono ormai una realtà ben radicata nell’impero e resistono. Nel 252 Cipriano scrive: “Non temiamo di essere uccisi, quando sappiamo che chi rimane ucciso riceve in premio la corona [dell’immortalità]” (Lettera al popolo di Tibari, 3). Per loro fortuna, ben presto Decio rimane ucciso in uno scontro coi barbari.
I generali Treboniano Gallo (251-253) e Emiliano (253), che succedono a Decio, sono entrambi assassinati ed escono ben presto di scena. Viene, quindi, acclamato imperatore il generale patrizio Valeriano (253-260), il quale associa al governo il figlio Gallieno, con l’evidente intento di fondare una dinastia. Purtroppo per lui, caso unico nella storia degli imperatori romani, viene catturato dai persiani e muore in prigionia fra indicibili maltrattamenti e umiliazioni. Il successore, Gallieno (253-268), trascorre il suo regno continuamente alle prese con le incursioni di Alamanni e Goti. Per la prima volta, questi barbari, soprattutto i Goti, entrano in contatto con la religione cristiana, attraverso i romani loro prigionieri, e questo seme è destinato a dare frutti. Dopo numerosi tentativi di usurpazione, alla fine Gallieno viene assassinato in una congiura, pare con la complicità dei due futuri imperatori: Claudio il Gotico e Aureliano. Claudio (268-270) si rivela un buon generale, ma deve soccombere alla peste.
Nonostante sia figlio di un povero contadino il lirico, Aureliano (270-5), riesce a fare una rapida e sorprendente carriera militare, che gli dischiude le porte del trono, proprio in uno dei momenti più drammatici della storia dell’impero. “Straordinaria è l’energia che seppe sprigionare in quel quinquennio, nel quale lottò su tutti i fronti cogliendo una lunga serie di successi grazie a una vitalità senza pari e a una velocità negli spostamenti che trova pochi eguali nella storia della guerra” (FREDIANI 2005: 52). Fa di tutto per evitare la disgregazione dell’impero e si oppone validamente agli attacchi dei barbari, anche se non può evitare la perdita della Dacia, che va ai goti. Sentendo che la stessa città di Roma è in pericolo, Aureliano si preoccupa di fortificarla e la cinge con un’imponente cerchia di mura. Con lui ha inizio una fase di ripresa dell’impero che raggiungerà il suo culmine con Costantino il Grande. Muore assassinato.
I successivi imperatori sono due fratelli di rango patrizio, Tacito (275-276) e Floriano (276). Anche loro vorrebbero fondare una dinastia, ma muoiono anzitempo, il primo in circostanze dubbie, il secondo assassinato dai propri soldati, che vogliono così mettere fine al rischio di guerra civile, che si sta profilando tra Floriano e il migliore dei generali di Aureliano, Probo (276-282), personaggio di umili origini, che viene acclamato imperatore dalle truppe: dimostrerà doti di valido condottiero, prima di essere ucciso dai suoi stessi legionari. Segue l’ennesimo tentativo di instaurare una dinastia da parte del generale patrizio Caro (282-283), che associa al governo i due figli, Carino e Numeriano. Caro muore, pare, colpito da un fulmine, e gli succedono Carino (283-285), in Occidente, e Numeriano (283-284), in Oriente.
13. Presente e Futuro
15 anni fa
Nessun commento:
Posta un commento