lunedì 7 settembre 2009

2.4. La società romana sul finire dell’espansionismo

Ormai paghi dei risultati raggiunti, i successori di Augusto frenano sulla politica espansionistica e si impegnano prevalentemente in opere difensive, avendo come primo obiettivo quello di mantenere la sicurezza e la pace. Nello stesso tempo, essi si adoperano allo scopo di rafforzare il proprio potere e di imporre una monarchia assoluta, ma per riuscire in ciò occorrerebbe esautorare il senato, il quale, tuttavia, non sembra per nulla disposto a rassegnarsi alla sua marginalizzazione. Per conseguenza, i rapporti tra imperatore e senato si svolgono all’insegna dell’equivocità e della non chiarezza. Coerentemente con la loro politica, gli imperatori fortificano le zone di confine, iniziando dal Reno e dal Danubio, per difendere l’impero dagli attacchi dei barbari, costruiscono strade, ponti, acquedotti e opere pubbliche, fanno sorvegliare le grandi vie di comunicazione dai soldati e perlustrare i mari dalla flotta, creando così condizioni favorevoli non solo alla pace interna (la cosiddetta pax romana), ma anche agli scambi commerciali.
A Roma affluiscono merci da ogni parte dell’impero, ed anche da altre regioni lontane, come la Germania, l’Arabia, la Russia e l’India, e, lungo le vie di transito delle merci e nei principali luoghi di mercato, vanno sorgendo molte città, ma il benessere economico riguarda solo il ristretto numero delle famiglie patrizie, dei principali funzionari dello Stato, dei capi militari e di qualche facoltoso mercante. A partire dal I secolo d.C., il divario fra ricchi e poveri si va facendo sempre più profondo e le disparità sociali sono così evidenti da apparire ripugnanti perfino agli stessi privilegiati (si pensi a Seneca e alla sua filosofia). In questa società viene propagato il nuovo messaggio del cristianesimo, che conquista simpatie non solo fra i diseredati ma anche fra i ceti più abbienti, desiderosi di una maggiore giustizia e di una morale più umana: ne riparleremo più avanti.
Nell’ultimo secolo della Repubblica, i fatti hanno dimostrato che Roma non disdegna di sfruttare i popoli assoggettati e non esita a schierare i propri eserciti l’uno contro l’altro. Ciò appanna l’immagine ideale che i Fabio, i Polibio e i Cicerone avevano interiorizzato e divulgato e, da più parti, si comincia ad invocare il ritorno alle antiche virtù, anche se non mancano coloro che, come Tacito (54-120), vedono nel principato un superamento dell’antico ordinamento repubblicano e l’unica forma di governo in grado di garantire la pace e la sicurezza (ROSEN 1999: 165). Il problema è che certi imperatori si macchiano delle più efferate nefandezze. Che pensare allora? Seneca (60 a.C. – 40 d.C. ca.) sostiene che la bontà della monarchia assoluta dipende dalle virtù personali del monarca e liquida così la questione (ROSEN 1999: 169). Ma il problema rimane, ed è il problema di una società che, ormai da tempo, appare sempre più lontana dalla perfezione, afflitta da mille ingiustizie, da prevaricazioni, da guerre civili per il potere, dall’aumento della miseria e dello scontento generale della gente.
Anche la società romana, come tutte le società di questo mondo, è costituita da famiglie ricche e povere, proprietarie e nullatenenti. La principale fonte di ricchezza è la terra, anche buoni guadagni possono derivare dal possesso di miniere, cave, saline, fabbriche di laterizi, attività commerciali, azioni di guerra. Ebbene, le terre provengono principalmente dalle conquiste, dalle confische e dall’eredità. “I principali mezzi di trasferimento della ricchezza sembra essere stati l’eredità e, in minor misura, il matrimonio” (Duncan-Jones 1980: 9). È una società gerarchizzata e classista, dove gli esseri umani si distinguono in schiavi e nati liberi, i cosiddetti ingenui, che possono essere cittadini o meno e che, a loro volta, si distinguono a seconda del censo.
Al gradino più basso si collocano gli humiliores, che non dispongono di capitali valutabili; poi viene il ceto medio, la gente per bene, gli honestiores, che possiedono almeno 5000 sesterzi; infine, si entra a far parte dell’ordine equestre e dell’ordine senatoriale se si dispone di un capitale rispettivamente di almeno 400.000 e 1.000.000 sesterzi. Le cariche pubbliche sono distribuite fra i membri di questi due ordini: ai cavalieri spettano le cariche minori, ai senatori quelle maggiori: “una specie di piramide a gradini, dal vertice della quale si stacca, tra cielo e terra, l’incomparabile dignità del principe” (CARCOPINO 1994: 67). Quando riceve la nomina, un pretore o un console celebra l’evento offrendo alla popolazione spettacoli e, durante il corso del suo mandato, spende del suo in opere architettoniche atte ad abbellire la città e lasciare il proprio segno nella storia. Edifici e spettacoli: l’autorità di un personaggio politico si traduce “in termini monumentali e teatrali” (VEYNE in ARIÈS, DUBY 1993: 81). Di solito, dietro adeguato compenso, gli uomini di potere cooptano qualcuno e lo nominano funzionario di qualche cosa. E il funzionario, a sua volta, fa altrettanto. Insomma, ci si serve della propria carica per arricchirsi, e ciò nel rispetto di una prassi consolidata e condivisa. “Fino al secolo scorso arricchirsi governando è stato ritenuto onesto” (VEYNE in ARIÈS, DUBY 1993: 69).
L’intero sistema obbedisce ad una logica di tipo clientelare e, potremmo dire, mafioso. “Ogni funzione pubblica era un racket dove i capi facevano pagare i loro dipendenti e dove, tutti insieme, sfruttavano quelli che amministravano: così fu al tempo della grandezza di Roma e a quello della sua decadenza” (VEYNE in ARIÈS, DUBY 1993: 67-8). In questa società, è fondamentale saper scegliere le amicizie e trovarsi al posto giusto al momento giusto. Nel suo complesso, anche se lo stoicismo predica la virtù e l’uguaglianza del genere umano, la società è in mano ad una minoranza di uomini potenti e ricchi. Il principio dominante è che “Tutti gli uomini sono uguali sotto il profilo dell’umanità, anche gli schiavi, ma quelli che posseggono un patrimonio sono più uguali degli altri” (VEYNE in ARIÈS, DUBY 1993: 98).
Alla base della piramide, abbiamo detto, c’è lo schiavo e il povero, ma chi è lo schiavo e chi è il povero? Gli schiavi romani non vengono esclusivamente e direttamente dalle vittorie militari, ma anche, e in maggior misura, dai casi di abbandono dei bambini, dalla vendita di uomini liberi e dalla prole degli schiavi. Contrariamente a quanto aveva sostenuto Aristotele (Pol. 1254 b), per gli antichi Romani la schiavitù non è una condizione naturale dell’uomo. Secondo Ulpiano (Digesto 50,17,32), infatti, tutti gli uomini sono uguali per natura, e la schiavitù è un’istituzione umana, sancita dal diritto. Non la natura, dunque, bensì il diritto divide l’umanità in liberi e schiavi. In ogni caso, la conseguenza è la stessa: la schiavitù è cosa giusta. E, infatti, essa non è messa in discussione, nemmeno dagli stessi schiavi.
Lo schiavo non ha diritti e viene considerato come un oggetto che appartiene al padrone, o come un essere inferiore, o un bambino, da trattare un po’ con amore un po’ con rigore. Viene chiamato genericamente “piccolo”, “ragazzo” (pais, puer), oppure con nomi diversi da quelli usati per gli uomini liberi, come lo sono i nomi dei cani. Sotto l’impero, la diffusione del pensiero stoico e cristiano si accompagna ad una progressiva umanizzazione della schiavitù. Gli schiavi possono sposarsi e, in tal caso, si cerca di non separare i membri della famiglia, per esempio vendendoli separatamente. Nulla di più: le loro condizioni rimangono orribili. Appellandosi all’inesorabile logica del fatalismo, gli stoici invitano gli schiavi a fare buon viso a cattiva sorte: se così ha voluto il destino, non rimane loro altro che comportarsi da buoni schiavi.
Uno schiavo può essere affrancato, solitamente per meriti personali oppure quando si trova in punto di morte, grazie ad un gesto di umanità, da parte del padrone, che gli concede la consolazione di morire da uomo libero. Lo schiavo affrancato acquisisce lo status di liberto. Un buon padrone tende ad affrancare i suoi schiavi e, quando lo fa, questo gesto è considerato come un suo merito, ma mai come un suo dovere. Alcuni liberti rimangono nella casa al servizio del padrone, altri si rendono completamente indipendenti, pur continuando a mantenere un ossequioso legame con l’ex-padrone. Il liberto ha il diritto di possedere beni e schiavi e di trasmetterli ai propri eredi, ma continua a conservare degli obblighi nei confronti del suo ex-padrone. Col passare del tempo le condizioni dello schiavo si vanno avvicinando a quelle dei cittadini poveri e, in pratica, l’unica vera distinzione sociale rimane quella fra ricchi-proprietari e poveri-lavoratori, honestiores e humiliores.
I poveri svolgono, in cambio di un salario, le stesse attività degli schiavi (Cicerone, Dei doveri I, 42). Chi non possiede nulla ed è costretto a lavorare per vivere è un cittadino di serie B, uno che non ha il controllo della propria persona, che si abbandona ai più bassi istinti, che si vende per poco, che pensa spudoratamente solo ai propri interessi e che è sempre pronto a scendere in piazza, a creare disordine e ad agitare la società. Tale è l’opinione pubblica corrente. Non tutti i poveri sono però uguali: si distinguono i buoni, quelli cioè che accettano l’ordine sociale vigente e mirano a migliorare le proprie condizioni, e i cattivi, quelli cioè che contestano i ricchi e turbano la quiete pubblica. L’unico modo di tenerli a bada è quello di distribuire loro beni e denaro, cosa che fanno anche i ricchi patroni nei confronti dei loro clienti e gli imperatori nei confronti della plebe. I poveri vivono ammassati in piccole stanze nei piani alti di abitazioni di tipo condominiale (insulae), che sono i più esposti al rischio di incendio; altri abitano in baracche o lungo le vie o sotto i ponti, malnutriti, petulanti: sono la feccia della società.
In linea col pensiero di Platone e Aristotele, anche a Roma l’industria è considerata come l’ancella dell’agricoltura e inscindibile da essa. Solo il contadino che lavora per sé e decide in modo libero la sua condotta, riceve pieno rispetto. Diversa è la condizione dell’artigiano, che non produce per sé, costruisce per vendere, cioè lavora per il committente o per il mercato, e così si sottomette a scelte e a volontà altrui. Ed è proprio questo che risulta sgradito e diventa oggetto di invincibile disprezzo: il dover lavorare per gli altri, a comando. Per il romano “l’artigiano è relegato nella condizione di sotto-uomo o, nella migliore delle ipotesi, di cittadino di seconda categoria” (MOREL 1993: 235).
Dello stesso discredito è fatto oggetto l’artista, perché anche l’artista lavora su committenza e per un profitto. I Romani ignorano il valore della soggettività individuale e, di conseguenza, non attribuiscono grande importanza al genio artistico: “il vero autore dell’opera d’arte non è colui che l’ha foggiata, né il vero autore d’un monumento è colui che l’ha edificato; l’autore è piuttosto il personaggio che ne ha chiesto e pagato l’esecuzione e che vi ha potuto imprimere i suoi gusti e la sua ideologia: il committente” (MOREL 1993: 240). Per tale motivo ignoriamo il nome di molti artisti romani. Siamo di fronte alla stessa logica.
I Romani hanno una bassa concezione anche del mercante, che ritengono opportunista, spregiudicato, malizioso, astuto, falso; uno che guadagna senza produrre, un parassita della società. I mercanti comprano ad un prezzo e rivendono ad un prezzo più elevato, ingannando la gente: “costoro non farebbero nessun guadagno se non dicessero tante bugie” (Cicerone, Dei doveri I, 42).
Le ragioni della scarsa considerazione riservata agli artigiani, ai mercanti e, in generale, a tutti coloro che lavorano per un salario, sono le stesse che collocano lo schiavo alla base della piramide sociale. Secondo Aristotele, “un essere che per natura non appartiene a se stesso ma ad un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo” (Pol. 1254a). In fondo si tratta della mancanza di libertà: secondo i romani, chi non ha la sovranità su se stesso non può essere ritenuto un vero uomo. Evidentemente, quella romana non è una società tecnico-industriale, ma essenzialmente una società agricola, dove “la più nobile, la più feconda, la più dilettevole, la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino è l’agricoltura” (Cicerone, Dei doveri I, 42). I Romani misurano la ricchezza in proprietà terriere, che poi sono quelle che contraddistinguono la nobiltà tradizionale, mentre diffidano della ricchezza liquida, tipica dei parvenu, che sono privi di una solida tradizione culturale.
A Roma la religione non occupa un posto di grande importanza. Le funzioni sacerdotali si limitano all’espletamento di semplici riti e alla lettura degli auspici, ed sono svolte principalmente da tutti coloro che ricoprono cariche pubbliche, piuttosto che da figure professionali. Nel suo complesso la religione contribuisce a sostenere l’ordinamento politico e a trasmettere nei cittadini la certezza che gli dei sono “patroni e alleati incrollabili del popolo romano” (SCHEID 1993: 71). Il rituale religioso serve anche per tenere lontana la mala sorte. La divinità è concepita come una potenza superiore a quella umana, ma non a livello infinito: gli dèi sono giusto un gradino al di sopra degli uomini, ed è per questo che è possibile la divinizzazione dell’imperatore. Nella pratica quotidiana una persona può rivolgersi a un dio per ricevere un favore o la riparazione di un torto e, se quel dio non si dimostra all’altezza, lo abbandona per uno migliore, esattamente come fa con un patrono umano. Al di fuori di piccole sette, non si crede in un aldilà né ad un’anima immortale. Diffuse sono le sette filosofiche di ispirazione stoica, epicurea, cinica, pitagorica, platonica, o altro ancora, che offrono un modo ragionato per trovare la felicità, o almeno la tranquillità, in questa vita, ma senza la pretesa di possedere la verità assoluta.
Strettamente legato alla religione di Zarathustra, è il culto di Mitra (dio della luce, ma anche dio guerriero), che è di origine iranica ed è caratterizzato da una ritualità particolarmente cruenta, che si rivela funzionale per forgiare il carattere del soldato, di abituarlo alla sofferenza, ma anche per infondergli speranza nei favori del dio e fiducia nei propri mezzi. Il mitraismo trova una grande diffusione sotto l’Impero e diviene la “forma di religiosità più diffusa tra i soldati romani” (FARIOLI 1998: 96), mentre è escluso alle donne.
Un ampio spazio viene invece riservato dai romani al diritto (ius). Nel periodo arcaico il ius era riservato ad una cerchia di sacerdoti, il collegio dei pontefici, cui i patres rivolgevano particolari quesiti per avere dei responsa. I pontefici, ovviamente, laddove possibile, si rifacevano ai costumi (mores) in uso presso le antiche gentes, negli altri casi dovevano stabilire essi stessi come ci si doveva comportare in particolari circostanze. A partire dal IV-III sec. a.C. si assiste ad uno spostamento dalla religione alla politica e la figura del sacerdote-sapiente viene sostituita da quella del professionista, il giureconsulto, che quasi sempre è un aristocratico. “A differenza degli altri diritti antichi, il diritto romano non è soltanto l’unico «scientificamente» elaborato, ma anche il solo prodotto in larga parte da un ceto di esperti «professionalmente» dedito per secoli a quell’attività” (SCHIAVONE 1993: 84). Dall’attività dei giureconsulti nasce una vera e propria letteratura giuridica specifica.
Nella pratica, tuttavia, solo una piccola parte dei contenziosi va a finire davanti ad un funzionario pubblico giudicante: nella maggior parte dei casi ognuno si fa giustizia da sé, come meglio può. Il modo più efficace di difendersi è quello di mettersi sotto la protezione di un grande, ma non c’è molto da fare se a procurarti un torto è proprio quel grande a cui ti sei affidato. “Qualunque cosa se ne sia detta, Roma non fu uno Stato di diritto civile o pubblico […] e si sa che tutto veniva risolto volta per volta, secondo i rapporti di forza del momento” (VEYNE in ARIÈS, DUBY 1993: 127).
La società romana è fondata sulla famiglia e, più precisamente, sul pater familias, ma non sull’individuo. Il nucleo familiare è composto dal marito con la moglie legalmente sposata e i figli, qualche schiavo e qualche liberto, con le relative famiglie, e alcuni uomini liberi che orbitano intorno alla casa, i cosiddetti clienti. Già dai tempi delle XII Tavole, il pater familias è l’unico uomo libero, l’unico dotato di diritti sociali e politici, l’unico a meritare il titolo di cittadino, e così sarà fino in età imperiale: i figli sono a lui sottomessi come schiavi ed egli può anche venderli, come si fa con uno schiavo. La differenza sostanziale è che i figli dei cittadini possono aspirare a divenire anch’essi cittadini, gli schiavi no. La “schiavitù” del figlio finisce solo con la morte del padre. Pertanto, la situazione di un adulto che ha il padre in vita deve risultare insopportabile. Alla nascita il bambino deve innanzitutto essere accettato dal padre (in caso contrario viene abbandonato), quindi viene affidato ad una nutrice e ad un pedagogo che ne cura l’educazione, oppure viene mandato a scuola fino a 12 anni, dove apprende prevalentemente l’arte della retorica. Solo i maschi di famiglia agiata proseguono negli studi. Il bambino bene educato si rivolge al padre chiamandolo “signore”. A dodici anni la ragazza è considerata in età di marito. Il matrimonio è visto come dovere per la patria (assicurare il ricambio generazionale), come un modo per essere riconosciuti cittadini a pieno titolo, ma anche come un mezzo per ampliare il patrimonio e trasmetterlo (VEYNE in ARIÈS, DUBY 1993: 23ss).
È in questo contesto culturale che si fa diffondendo il messaggio degli apostoli che, come abbiamo osservato, è centrato sull’imminente ritorno del Signore e sull’instaurazione del regno di Dio e della Nuova Gerusalemme, in sostituzione dell’impero vigente e di Roma. A chi crede in questo messaggio viene promesso che farà parte del nuovo regno. Ora, nessuno sa, di preciso, in che cosa consista il nuovo regno, e ciascuno se lo immagina come vuole, ma tutti sono certi che sarà molto meglio del mondo romano. Il messaggio fa presa soprattutto sui membri delle classi più deboli, sui poveri, sugli oppressi, sugli emarginati, e su coloro che vivono male e hanno perso la speranza in un futuro migliore. Non avendo nulla da perdere, essi si convertono con entusiasmo alla nuova religione e si fanno battezzare. In attesa del regno, ad essi non viene richiesto altro che l’osservanza dei comandamenti, specie quello di amarsi e rispettarsi vicendevolmente, come fratelli. È su queste basi che si vanno sviluppando le prime comunità cristiane. A ciascuno viene semplicemente chiesto di contribuire, secondo le proprie possibilità, alle pur minime spese organizzative. Chi possiede una casa spaziosa, mette una sala a disposizione della comunità, che ivi si riunisce ogni domenica per pregare. Chi dispone di una campagna si mostra ben felice di condividerne i frutti con i suoi fratelli di fede. Chi ha qualche risparmio messo da parte non esita a metterlo a disposizione della comunità. Chi non ha nulla, non deve nulla, e anzi può avvantaggiarsi di quella straordinaria gara di solidarietà, che attira sempre nuova gente. A conti fatti, nella maggior parte dei casi, i vantaggi previsti superano i costi da pagare.
“Mentre si prometteva ai discepoli di Cristo la felicità e la gloria di un regno temporale, si annunciavano contro il mondo infedele le più terribili calamità” (GIBBON 1967: 418). Roma sarebbe caduta a causa delle proprie discordie intestine e delle invasioni di popolazioni barbare, aggravate da peste e fame, inondazioni e terremoti, e al suo posto si sarebbe elevato l’imperituro regno del Cristo trionfante. Di conseguenza, ogni sciagura che colpisca l’impero, sia essa una calamità naturale o un’epidemia, una crisi economica o una sconfitta in battaglia, una carestia o il semplice malcontento dei cittadini, tutto ciò tende ad essere visto come segno premonitore di un mondo nuovo e induce i cristiani a prendere le distanze da Roma e dalla sua boria.

Consapevole che il potere gli deriva dall’esercito, Vespasiano pone termine anche alla manfrina, che ha caratterizzato, fino ad allora, i rapporti tra imperatore e senato, ed emana un decreto che formalizza il potere assoluto dell’imperatore. «Il principe è libero dalla legge, e ciò che piace a lui è legge»: questo è il senso del nuovo corso, che raggiunge il suo apice quando Domiziano (81-96), assumendo i titoli di dominus et deus, instaura un’autocrazia teocratica, che si traduce di fatto in un cesarismo dinastico e in un ridimensionamento del potere senatoriale. Gli aristocratici rispondono ordendo varie congiure, l’ultima delle quali è fatale per l’imperatore. Gli succede Nerva (96-98), il quale, oltre che per la politica assistenziale verso le classi meno abbienti, si distingue per la riesumazione del costume di scegliere per adozione il futuro imperatore. Il prescelto è Traiano (97-117), che rivela doti di abile organizzatore e accorto amministratore, oltre che di indomito condottiero e stratega straordinario. Gli succede il figlio adottivo Adriano (117-138), che preferisce abbandonare la politica espansionistica del predecessore, per dedicarsi al risanamento delle finanze e alla fortificazione delle frontiere.

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