lunedì 7 settembre 2009

2.16. I cristiani ai tempi di Costanzo

Costantino lascia l’impero ai suoi tre figli, Costantino II (337-340), Costante (337-350) e Costanzo (337-61), che sono tutti stati educati cristianamente e sono di fede cristiana. Mentre partecipano ai solenni funerali di Stato del loro illustre genitore, essi stanno già complottando l’eliminazione di tutti i possibili pretendenti al trono, in particolare i figli dei fratellastri del padre, compresi i loro amici, sostenitori e simpatizzanti. Solo pochi riusciranno a sottrarsi al massacro. Ben presto però cominciano gli attriti anche fra i tre fratelli, il principale dei quali riguarda la delimitazione dei rispettivi confini. Costantino II riceve la Gallia, la Spagna e la Britannia, Costante l’Italia e l’Africa, Costanzo l’Oriente. Essendo il più anziano fra i tre, Costantino II si atteggia a primus inter pares, ma la cosa non è gradita a Costante e alla fine Costantino II viene ucciso dai soldati del fratello (340).
Intanto, Costante ha un atteggiamento così altero e sprezzante nei confronti dei suoi legionari da indurli ad ammutinarsi e ad acclamare imperatore Magnenzio (350-353), un ex schiavo, e poi viene messo a morte da un seguace del ribelle. Costanzo affronta e sconfigge Magnenzio, inducendolo al suicidio (353). Come già ai tempi di Costantino, anche sotto Costanzo le legioni seguono il vessillo della croce e, dei numerosi soldati barbari arruolati nelle legioni, molti abbracciano il cristianesimo.
La situazione per i cristiani non cambia sotto Costanzo: anche in questo caso è l’imperatore che prende l’iniziativa e interviene in tutte le principali controversie di natura religiosa. Al momento, la questione che divide maggiormente i teologi è quella riguardante la natura di Cristo. Nella speranza di dirimerla, Costanzo, che personalmente è di fede ariana, convoca un concilio a Sardica (342), ma l’assemblea dei vescovi si spacca e le due parti si lanciano reciproci anatemi: è un vero fallimento. Alla fine prevale la posizione dell’imperatore, che prevede la rivalutazione di Ario, mentre Atanasio deve riparare nel deserto. Ciò non basta a placare la polemica, che anzi si estende, comprendendo una terza tesi: la natura di Cristo non è né uguale, né diversa, ma simile. Alla fine, Costanzo si convince che “simile” sia l’unica formula in grado di preservare l’unità della chiesa e fa approvare questa soluzione da due concili (359). La controversia però continuerà anche dopo la morte di Costanzo. Nonostante tutto, il concilio di Sardica è destinato ad avere un rilevante peso storico, perché è l’unico in cui si riconosce esplicitamente il primato di Roma su tutte le altre chiese e al quale più volte i papi si richiameranno per legittimare la propria autorità. C’è da dire però che, né il concilio di Costantinopoli (381) e nemmeno quello di Calcedonia (451), che pure si occuperanno della questione, saranno altrettanto espliciti sul primato di Pietro.
Ai tempi di Costanzo si contano 1800 comunità ecclesiali, di varia dimensione e importanza, disseminate in tutto l’impero, ciascuna con un proprio vescovo e con uno stuolo di sacerdoti semplici. Il vescovo viene eletto in modo democratico, non solo dal clero inferiore e dagli aristocratici della città, ma anche da tutta la popolazione locale, “che nel giorno stabilito accorreva in folle dalle più lontane parti della diocesi” (GIBBON 1967: 669). L’imperatore non si intromette. Il clero è esentato “da ogni servizio pubblico o privato, da tutti gli uffici municipali, e da tutti quei tributi e contributi personali, che con peso intollerabile opprimevano i loro concittadini” (GIBBON 1967: 671). Per di più, alle chiese è data facoltà di ereditare i beni dei fedeli. Al vescovo poi è concesso l’esclusivo privilegio di non essere giudicato che dai suoi pari, il che gli consente di godere di un’ampia immunità di fatto. Egli è l’autorità morale indiscussa, colui che definisce il bene e il male della comunità. Il suo potere è enorme e ciò spiega perché l’episcopato è una carica molto ambita.

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