Col passare degli anni, grazie ad un sincero e diffuso sentimento di solidarietà, le singole comunità cristiane accumulano dei patrimoni considerevoli, che comprendono case, campagne, centri di ricovero, ospedali, cappelle e liquidità. Al fine di poter amministrare meglio il patrimonio e l’ufficio, il vescovo di Roma, Fabiano (236-250), suddivide la città in sette distretti o diaconie, ciascuno dei quali viene affidato ad un diacono. È un momento magico per la comunità cristiana dell’Urbe, che raggiunge il suo massimo sotto l’imperatore “cristiano” Filippo l’Arabo. Per la verità, a parte le annose questioni di carattere dottrinale, c’è un problema, che inquieta alcuni vescovi, come Cipriano, e che consiste in una certa rilassatezza dei costumi: cessato il fervore dei primi decenni, che sono segnati dall’attesa di un’imminente parusia, i cristiani hanno cominciato a condurre una vita “normale”, quasi sovrapponibile a quella degli altri cittadini di Roma, e hanno accumulato patrimoni considerevoli, tant’è che la carica di vescovo è vista adesso come un obiettivo allettante per molte persone ambiziose e senza scrupoli. Le principali conseguenze sono decadimento del tenore morale dei quadri dirigenti e la politicizzazione della religione, che però non sono ancora considerati problemi allarmanti. C’è ancora un abisso tra questo mondo e quello romano. E così sarà per tutto il terzo secolo e parte del quarto.
Fin qui, i cristiani hanno potuto esprimere tranquillamente il loro modello di vita e hanno creato una formidabile rete di solidarietà, che li mette al riparo dal rischio di solitudine e abbandono: è una sorta di assicurazione globale, che li pone in una condizione di vantaggio rispetto agli altri cittadini, specie in un momento di crisi generale dell’impero, rendendoli oggetto di ammirazione e di invidia. Qualcuno però li sospetta di tradimento della causa dello Stato e vede in essi un fattore non secondario della crisi generale. Si spiegano così le persecuzioni nei loro confronti da parte di Decio e di Valeriano.
Dopo le persecuzioni, può iniziare per i cristiani un nuovo periodo di pace, durante il quale le chiese continuano ad organizzarsi sempre meglio e ad irrobustirsi economicamente.
All’epoca di San Cipriano, vescovo di Cartagine (249-258) e padre della Chiesa, è attuale la questione di coloro che, avendo abiurato la propria fede per paura delle persecuzioni, si dichiarano pentiti e chiedono di essere riammessi nella chiesa. Sono i cosiddetti lapsi. Su di loro le opinioni dei vescovi sono contrastanti. Da parte sua, Cipriano è dell’avviso che essi debbano ricevere un nuovo battesimo, mentre Stefano, vescovo di Roma, ritiene sufficiente una procedura più semplice. È in occasione di questa disputa che il vescovo di Roma, Stefano I (254-7), si appella per la prima volta al famoso passo di Matteo (16,18-19), ma Cipriano non si piega. Il fatto è che, a metà del III secolo, ancora non si sa nulla del primato petrino. È vero tuttavia che, a partire dal 258, la memoria di Pietro e Paolo inizia ad essere celebrata congiuntamente, il 29 giugno, a testimonianza del posto centrale occupato dai due apostoli nell’autocoscienza della chiesa di Roma (DUFFY 2001: 33). Cipriano ha un’elevata concezione dell’autorità del vescovo, ma non accetta l’idea di un papa: “nessuno di noi si pone come vescovo di vescovi o esercita poteri da tiranno per portare, con la forza, i suoi colleghi all’obbedienza” (DUFFY 2001: 39). Per il momento sono solo schermaglie: nulla di serio. Si va avanti come sempre. La chiesa di Roma gode di un indubbio prestigio, ma la sua autorità non è ancora ben definita.
13. Presente e Futuro
15 anni fa
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