lunedì 7 settembre 2009

2.14. Il cristianesimo ai tempi di Costantino

A cavallo fra III e IV secolo, il cristianesimo è ormai diffuso in tutto l’impero e costituisce una potenza sociale ed economica di tutto rispetto, che non può essere ignorata. Nei suoi confronti, i pagani sono divisi: alcuni l’avversano e vorrebbero estirparlo, come si fa con un tumore, altri sono favorevoli ad una sua integrazione. Sotto Diocleziano prevale la prima linea e si apre un duro periodo di persecuzione, il cui obiettivo è quello di estirpare il tumore. I cristiani non potrebbero resistere a lungo, ma, per loro fortuna, riaffiora l’anima pagana favorevole alla pacifica convivenza con Galerio, che riconosce la libertà di culto (311). Il pericolo è passato, ma, a Cartagine, avviene un fatto increscioso: i seguaci di Donato accusano il vescovo Ceciliano di aver tradito la fede durante la persecuzione e lo inducono a dimettersi. Della questione si occupa direttamente Costantino, che, da qui in avanti, assume, di fatto, il ruolo di super-vescovo (non per niente viene chiamato “Isapostolo”, ossia pari ad un apostolo), mentre il vescovo di Roma, Silvestro I (314-35), continua a rimanere una figura di secondo piano.
Da questo momento ai cristiani è data la facoltà di costruire le loro chiese, e i lavori cominciano. In questo momento, la chiesa più importante della Palestina è quella di Cesarea, mentre in vescovi di Aelia cominciano a rivendicare il primato della propria città, essendo il luogo dove Cristo ha predicato ed è stato crocefisso e sepolto. Sulla questione si pronuncerà il concilio di Nicea, il quale, pur riconoscendo ad Aelia una posizione onorevole, conferma il suo ruolo subalterno nei confronti di Cesarea. Ciò non toglie che Aelia, soprattutto dopo che gli scavi hanno portato alla luce il luogo dove Gesù è stato crocefisso e sepolto, diviene un’importante meta di pellegrinaggio e acquista notevole rilevanza sotto il profilo della pietà religiosa, anche se, per Eusebio, vescovo di Cesarea, essa rimane una città irrimediabilmente contaminata dall’ebraismo deicida.
Uno dei problemi che assilla l’imperatore sotto il versante religioso è questo: è vero che il modello cristiano è superiore a quello pagano, ma è anche vero che le diverse chiese sono divise su questioni dottrinali e i loro contrasti sono all’origine di tafferugli e turbolenze, che non giovano all’impero. Ebbene, Costantino vuole ricomporre le controversie e realizzare l’unità di tutte le chiese cristiane, convinto che quella potente organizzazione, che non si è piegata di fronte alle persecuzioni, può risultare vantaggiosa ai fini politici, se opportunamente valorizzata. Ora, c’è soprattutto una questione che continua a dividere le comunità cristiane e sulla quale non sembra esserci modo alcuno di giungere ad una risposta condivisa. Si tratta della natura di Cristo, che vede in campo due tesi contrapposte: la prima, stabilisce che il Figlio non ha la stessa natura del Padre, essendo una sua creatura, la seconda, afferma che entrambi hanno la stessa natura. Ciascuna delle due dottrine ha un proprio alfiere: un prete alessandrino, Ario, la prima, il vescovo di Alessandria, Atanasio, la seconda. Ario non nega la divinità del Cristo, ma afferma che, essendo creato dal Padre, il Figlio non è né coevo, né eguale al Padre stesso. La sua è una posizione di buon senso, che nulla toglie alla sostanza del cristianesimo, né come religione, né come dottrina etica; eppure, su di essa si innesca una controversia, che rischia di lacerare tutto l’impero.
Volendo risolvere l’annosa questione, Costantino convoca a Nicea un concilio generale dei vescovi (325). La partecipazione è massiccia, ma le discussioni si placano solo quando l’imperatore impone la tesi dell’identica natura. I vescovi che non vogliono accettarla vengono esiliati. Così la questione è risolta, la calma regna fra le chiese e l’imperatore è soddisfatto. Più tardi qualcuno aggiungerà agli atti del concilio un documento, il Sesto canone, che comincia con le parole: “la chiesa romana ha sempre avuto il primato…”. Si tratta di un falso teso a dimostrare che il primato petrino è stato proclamato dal primo concilio, come dire: è esistito da sempre. Trattandosi di un falso, ne dobbiamo che questo “primato di Roma”, ai tempi di Costantino, semplicemente non esiste.
Quello convocato a Nicea dall’imperatore, allo scopo di ricondurre all’unità le dottrine controverse delle singole chiese cristiane, è il primo concilio ecumenico e costituisce un punto di svolta nella storia del cristianesimo. A partire da Costantino, la nuova religione è non solo tollerata dallo Stato, ma anche patrocinata dallo stesso imperatore, che ne diviene garante supremo. A lui è riconosciuto il diritto di convocare i vescovi in assemblea generale, di presiedere l’assemblea stessa e di pronunciare l’ultima parola, anche su questioni dottrinali. Da questo momento, il cristianesimo costituisce un’unica chiesa ed è organizzato gerarchicamente intorno alla figura dei vescovi e dell’imperatore, che ne è il vero e proprio capo supremo e la governa secondo le leggi dell’impero. La nuova chiesa, che possiamo definire cristiano-imperiale, ha ben poco in comune con il regno di Dio dei primi cristiani.
Costantino non è solo il supremo magistrato (legislatore) e il supremo comandante delle forze armate, ma è anche il capo incontestato della chiesa, come attestano i suoi titoli di Isapostolo (XIII apostolo), Pontefice Massimo e Vicario di Dio sulla terra (COGNASSO 1976: 257-8). Soprattutto importante è il titolo “tredicesimo apostolo”, che vuol dire: l’unico apostolo vivente, ossia l’effettivo capo della chiesa. In quanto capo della chiesa, è all’imperatore che spetta il compito di dirimere le controversie religiose, possibilmente, ma non necessariamente, dopo aver sentito il parere dei vescovi convocati da lui stesso in assemblea (CHIOVARO, BESSIÈRE 1996: 30). Per contro, il vescovo (qualsiasi vescovo, compreso quello di Roma) diventa un funzionario dell’imperatore e, come tale, è detentore di poteri politici. Per esempio, è concessa al cittadino la facoltà di impugnare il verdetto di un giudice ordinario facendo appello al tribunale di un vescovo (MARCONE 2000: 61).
Il cristianesimo è ormai divenuto un’istituzione dello Stato: apparentemente guadagna, divenendo un centro di ricchezza e potere, ma il prezzo che deve pagare è il rinnegamento di alcuni consolidati principî cristiani. Inoltre, i benefici che l’imperatore concede ai cristiani sono tali che sempre più numerosi sono coloro che si convertono alla nuova religione, non tanto per motivi di fede, quanto per semplice interesse, il che finisce per abbassare il livello morale delle comunità cristiane.
Ne consegue l’allontanamento dal modello sociale vagheggiato dai primi cristiani, i quali avevano immaginato un Regno improntato ad un sostanziale egalitarismo, dove tutti i suoi membri sono figli di Dio, dunque fratelli, e dipendono esclusivamente da una legge scritta non da autorità umane, ma da Dio stesso. Questo quadro si capovolge dopo la decisione dei cristiani di accettare l’apertura di Costantino ed entrare in politica. Dopo questa svolta, il modello ebraico-cristiano diventa quello della monarchia assoluta e, ancor più, dell’impero universale, e dominerà la scena politica lungo tutto il medioevo e oltre. Dietro il sovrano assoluto, sia egli il re o l’imperatore, c’è Dio, mentre la figura del cittadino responsabile cede il posto a quella di suddito. L’assolutezza del potere regale non è legata al re come uomo, ma al re che parla in nome di Dio e impone la sua volontà come se fosse quella di Dio. Ciò che fa il re è come se lo facesse Dio e nessuno ha il diritto di contestarlo. Per definizione la legge del re è giusta. Essa può essere modificata dallo stesso re o da un altro re, ma giammai dal basso, dal popolo. È la riproposizione di un vecchio modello, che è una sorta di autocrazia mascherata di teocrazia e che abbiamo visto operante presso gli antichi egizi e i mesopotamici e i cui esiti ci sono noti: esso può reggersi in piedi solo con la forza e grazie al sacrificio di molti a favore di pochi e, quando crolla, lascia dietro di sé una lunga stria di sangue.

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