lunedì 7 settembre 2009

2.7. Da Marco Aurelio a Settimio Severo

Nei due secoli che vanno da Augusto alla morte di Marco Aurelio l’imperatore è eletto dal senato e dal consenso dei soldati e non si registrano guerre civili. In questo periodo di relativa calma e stabilità, possono esprimere la propria creatività, in campo letterario, personaggi come Apuleio (125-180) e Gellio (122-180), ma, soprattutto, possono esprimersi in campo scientifico pensatori del calibro di Tolomeo (90-168) e Galeno (130-200): il primo raccoglie nel suo Almagesto le acquisizioni degli astronomi che lo hanno preceduto, un po’ come aveva fatto Euclide per la matematica; il secondo scopre la differenza tra sangue venoso e arterioso, ma, non essendo in grado di vedere i capillari e quindi di comprendere la fisiologia dell’apparato circolatorio, spiega la presenza di sangue nel cuore destro e sinistro, supponendo la presenza nel setto interventricolare di minuscoli fori invisibili ad occhio nudo.
Marco Aurelio ripropone il principio dinastico, e così gli succede il figlio Commodo (180-192), il quale però muore, assassinato, senza lasciare eredi. Si apre allora una nuova fase, che si prolungherà fino alla caduta dell’impero, che sarà caratterizzata dalla questione della legittimazione del potere politico. Non essendo in grado di trovare una soluzione giuridica alla questione, e nemmeno religiosa, dal momento che i tempi sono cambiati e il principio della divinizzazione non sembra più funzionare, non rimane che la forza: il potere politico dev’essere conquistato e mantenuto con la forza. In questa fase acquistano particolare importanza la guardia pretoriana e le legioni. Dal punto di vista culturale si tratta certo di un regresso, un ritorno alla protostoria, solo che adesso Roma dispone di grandi eserciti, che sono dislocati nei punti nevralgici dell’impero, i cui generali si sentono ugualmente in diritto di aspirare al potere.
Si apre allora un periodo di guerre civili (193-197), caratterizzate dalla lotta intestina fra i massimi aspiranti al potere, cui pone termine Settimio Severo (193-211), un militare di carriera, appartenente alla classe equestre, dunque un non-nobile, che al momento è governatore della Pannonia Superiore, il quale, dopo essersi fatto acclamare imperatore dai suoi soldati e dopo avere eliminato i suoi diretti avversari, diviene unico padrone dell’impero (197). Severo è perfettamente consapevole che il suo potere è stato conquistato con la forza e sa che può conservarlo solo con la forza. Coerentemente, egli rinforza l’esercito, aumenta la paga dei soldati ed eleva al rango di massimo organo politico l’Assemblea dei suoi generali, instaurando una sorta di dittatura militare. Severo si preoccupa di rinforzare le aree di confine, promuovendovi lo stanziamento di soldati, con le loro famiglie, cui viene assegnato un lotto di terreno: quei soldati-contadini sono pronti a prendere le armi e a difendersi da eventuali attacchi dei barbari e, così facendo, difendono anche l’impero, rendendolo più saldo. Severo non trascura di guadagnarsi l’appoggio del popolo, con regalie e donazioni, né si culla sugli allori, ma rimane sempre vicino al suo esercito, che è impegnato incessantemente in campagne militari, per sua fortuna vittoriose, nell’ultima delle quali trova la morte. Grazie all’appoggio dell’esercito e alle sue qualità di condottiero e di uomo politico, Severo riesce anche ad imporre la propria dinastia, che gli sopravvivrà fino al 235.
Le comunità cristiane sono ormai ben organizzate, intorno alla figura di un vescovo, dispongono di una propria letteratura religiosa, ma anche di una propria filosofia da contrapporre a quella pagana e sono convinti di rappresentare il miglior modello di vita possibile. Tutto bene, dunque? Non precisamente. Ci sono almeno due grossi problemi, che affliggono il cristianesimo. Il primo è il mancato riconoscimento da parte dello Stato, le cui conseguenze vanno dalle requisizioni di beni alle persecuzioni. Così, nonostante i donativi dei fedeli, le chiese non riescono ad arricchirsi oltre un certo limite e i cristiani devono temere per le proprie vite.
Il secondo problema è di natura interna e riguarda l’organizzazione dottrinale. Il fatto è che, nel periodo che sta a cavallo fra II e III secolo, manca un’autorità centrale e la cristianità consiste di una quantità di chiese indipendenti, ognuna delle quali ha sviluppato una propria elaborazione teologica della fede. La conseguenza è che circolano dottrine diverse, tutte avallate dall’autorità di un vescovo, tutte ugualmente cristiane. Ora, è impossibile che dottrine diverse siano ugualmente vere, dal momento che, come si pensa, la verità è una. Contro il rischio di frammentazione e di caos, si leva allora la voce del vescovo di Cartagine, Cipriano (ca. 210-258), il quale esorta tutti i vescovi all’unità dottrinale, perché una è la verità, una è la chiesa, “uno è l’episcopato” (L’unità della Chiesa, 5). Da qui nasce la necessità di distinguere la vera dottrina cristiana fra le tante in circolazione. Ma qual è la vera dottrina e quali quelle false? In mancanza di un vescovo-capo, che decida per tutti, è impossibile dirlo, e così ognuno si tiene la sua verità.

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