lunedì 7 settembre 2009

2.15. Il Monachesimo e il problema dei ricchi

In risposta a queste presunte degenerazioni dello spirito evangelico, molti cristiani si ritirano dal mondo e vivono in condizioni di povertà, come l’anacoreta Antonio, mentre Pacomio (290-345) fonda la prima confraternita di asceti e san Basilio (330-79) elabora una prima forma di monachesimo.
Membro di una famiglia facoltosa, a causa di una crisi spirituale, Basilio di Cesarea abbandona i propri beni e abbraccia una vita di tipo ascetico (357). Qualche anno dopo verrà ordinato sacerdote (362) e infine eletto vescovo (370). Ebbene, Basilio denuncia la perdita dello spirito solidaristico e dell’armonia dei tempi passati delle comunità cristiane: “la carità si è raffreddata sotto tutti gli aspetti; l’accordo fraterno è sparito ed è perfino ignorata la parola concordia (…); non c’è più sentimento cristiano” (Lo Spirito Santo, 78). La crisi morale investe anche, e soprattutto, i livelli apicali, in particolare i vescovi, che sono diventati personaggi politici, ricchi e potenti. Lo stato di crisi in cui versa la chiesa intorno alla metà del IV secolo è dovuto, secondo Basilio, non solo alle divisioni dottrinali interne e alle eresie incontrollabili, ma anche alla feroce competizione per il titolo di vescovo: “lo scontro per le sedi episcopali è indescrivibile” (Lo Spirito Santo, 77). Solo a titolo di esempio, possiamo ricordare il caso di Damaso e Ursino, due candidati vescovi a Roma, i quali si affrontano dando luogo ad una lotta cruenta e spietata, che conta centinaia di vittime e offrendo uno spettacolo pietoso e nettamente contrastante con la dottrina di Cristo, che però non sorprende lo storico pagano Ammiano Marcellino, secondo il quale la posta in palio giustifica il ricorso alla lotta condotta con ogni mezzo. I vescovi, infatti, “hanno un futuro assicurato, sono arricchiti dalle offerte delle matrone, viaggiano seduti nelle carrozze, splendidamente abbigliati, offrono banchetti così sontuosi da sorpassare le tavole dei re” (DUFFY 2001: 57).
L’attaccamento alla proprietà privata condiziona sempre più il comportamento dei cristiani, le loro scelte e la loro fede. Eppure, osserva Basilio, la natura ha dato agli uomini tutto in comune! “Se ciascuno si prendesse quanto basta al suo bisogno, lasciando il superfluo all’indigente, nessuno sarebbe ricco e nessuno povero” (Omelia sul ricco insensato, 7). La posizione di Basilio sulla proprietà privata, che è la posizione di tutti quelli che abbracciano la vita monacale, è scarsamente condivisa dagli altri cristiani e, men che meno, dai vescovi che, dopo Costantino, sono entrati nel novero degli uomini ricchi. Prevale comunque, in seno al cristianesimo, almeno come ideale a cui tendere, la concezione, secondo la quale la ricchezza non è un male di per sé. Il giudizio morale non va espresso sul denaro, bensì sull’uso che se ne fa. È male usare il denaro per asservire i propri fratelli, è bene servirsi di esso per alleviare le sofferenze degli indigenti. Questa è la posizione dominante fra i cristiani del IV secolo ed è ben riassunta da Ilario (315-367), vescovo di Poitiers. “Non è un crimine possedere, ma bisogna osservare una misura nel possedere. In che modo infatti si potrà dividere, mettere in comune, se non viene lasciata nessuna risorsa da dividere e da mettere in comune? Il crimine quindi non consiste nel possedere in se stesso ma nel possedere in modo da nuocere” (Commento a Matteo 19,9).

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