lunedì 7 settembre 2009

2.24. La fine dell’Impero

Perché crolla l’Impero romano d’occidente? Le cause sono molteplici. Esauritasi la tendenza espansionistica e venendo a mancare la speranza di conquistare nuove ricchezze, gli imperatori pensano a realizzare un equilibrio interno stabile e soddisfacente. Si tratta, in pratica, di trovare il modo di far cooperare armonicamente i pochi ricchi, che ormai vogliono solo godersi la propria condizione, con le sterminate masse dei poveri, che devono tribolare per sopravvivere e che, sempre più spesso, sono all’origine di tumulti e rivolte. Ma l’impresa si rivela più ardua del previsto e, alla fine, risulta impossibile da realizzare, non solo perché molti disperati si danno al brigantaggio e insidiano i beni dei ricchi, con conseguente turbamento dell’ordine sociale, ma anche perché i generali barbari diventano sempre più sfrontati e minacciano di far crollare l’Impero da un momento all’altro. È perciò necessario, da un lato, prevenire o sedare i disordini interni, che scoppiano un po’ dovunque, dall’altro lato approntare una difesa efficace contro la minaccia di popolazioni barbariche, che sono discretamente organizzate e molto motivate. In entrambi i casi, si rende necessario disporre di un forte esercito, ma qui sta forse la principale causa della caduta dell’Impero.
Quando si trattava di prendere le armi per conquistare un paese potevano essere d’accordo tanto i ricchi, che vi vedevano un’occasione per incrementare la propria ricchezza, quanto i poveri, che speravano nella possibilità di beneficiare in qualche modo dalla spartizione del bottino. Adesso, che la guerra è divenuta di tipo difensivo, nessuno pensa di trovarvi un vantaggio: i ricchi vi vedono solo un’inutile spesa e un altrettanto inutile pericolo per le proprie vite, i poveri solo rischi per sé e per le proprie famiglie, senza avere nulla in cambio. Perciò, tanto l’aristocrazia quanto il popolo si chiudono nel loro particolare e si mostrano estranei alla causa dello Stato. Fra le principali cause di debolezza dell’impero, dobbiamo ricordare, per l’appunto, la tendenza disgregatrice dei latifondi, i cui signori tendono a chiudersi in una dimensione autarchica e rimangono insensibili ai problemi dello Stato centrale, che, per difendersi, deve affidarsi alla dittatura militare e alle imprese di improvvisati condottieri.
Solo per l’imperatore e per i più importanti esponenti politici, il timore di perdere potere e beni è così forte da indurli a lottare strenuamente allo scopo di tenere saldo l’ordine sociale. Solo loro vedono i barbari come un pericolo da cui difendersi, ma devono misurarsi con lo scarso entusiasmo generale. Gli alti costi dell’esercito permanente, dell’apparato burocratico e della corte imperiale comportano la necessità di mantenere alta la pressione fiscale, che viene dai più ritenuta eccessiva e intollerabile. Lo scontento è pervasivo, le rivolte popolari si fanno più frequenti ed è sempre più difficile domarle, mentre il brigantaggio, rendendo insicure le strade, determina un forte calo dei traffici commerciali. Sempre più spesso l’esercito dev’essere impiegato per mantenere l’ordine sociale, ma, anche quando esso è chiamato a respingere i barbari, il valore dimostrato dai soldati in battaglia risulta negativamente influenzato dalla loro scarsa motivazione. In queste condizioni, molti cittadini si sentono così insoddisfatti da preferire di vivere coi barbari piuttosto che restare tra i romani.
Secondo alcuni studiosi, tutte queste cause non sono sufficienti a spiegare la caduta dell’Impero, se non aggiungendo un’altra causa, che è altrettanto corrosiva e dirompente: il cristianesimo, con i suoi vescovi e le sue chiese, che, dopo Costantino, è divenuta una rilevante forza politica e culturale, dotata di una propria potenza economica e di una propria organizzazione. Ebbene, quando l’Impero vacilla sotto l’attacco disordinato dei barbari e quando Roma subisce l’umiliante sacco ad opera dei Visigoti (410), esso viene a mancare del necessario supporto morale da parte di una Chiesa, che appare più interessata alla propria sopravvivenza piuttosto che a quella dell’Impero stesso. I barbari sono visti come un nemico assoluto e irriducibile solo dai romani pagani, per i quali non può esserci alcuna possibilità di dialogo e nessun compromesso con le orde degli assalitori, ma solo un’alternativa drastica: o noi o loro.
Alla Chiesa invece poco importa se l’imperatore romano venga rimpiazzato da rozzi sovrani barbari, i quali, avendo necessità di darsi un’organizzazione amministrativa, possono essere agevolmente civilizzati, non solo lasciando intatto, ma anche accrescendo il proprio potere e il proprio prestigio. Da parte loro, nel passaggio da un padrone ad un altro, i sudditi cristiani guardano alla Chiesa come elemento di continuità e punto di riferimento, elevandola al rango di sommo organismo politico e culturale, in grado di condizionare le decisioni dei capi barbari e l’impiego della loro forza militare. In questa sua politica, la Chiesa assorbe gli uomini migliori, che, anziché offrire i propri servigi a Roma, decidono di servire la Chiesa stessa, dove avrebbero potuto realizzarsi anche senza Roma e nonostante i barbari. Insomma, la Chiesa si pone agli occhi di molti come una valida alternativa all’Impero morente e rende accettabile la presa del potere da parte dei barbari. Per tutta questa serie di ragioni, Momigliano ritiene che “vi è una relazione diretta tra il trionfo del cristianesimo e il declino dell’impero romano” (1987: 347).

Nessun commento:

Posta un commento