Uno dei suoi luogotenenti, il cinquantenne Caio Mario (157-86), uomo di umili natali, tanto rozzo e opportunista quanto determinato e ambizioso, si convince di essere l’uomo giusto per portare a conclusione la guerra e tanto si adopera finché riesce a farsi eleggere console (107). Gli aristocratici gridano allo scandalo. È vero, infatti, che le alte cariche sono aperte a tutti, ma solo in teoria: di fatto sono limitate alla cerchia di poche nobili famiglie. Mario però dimostra di saperci fare e riesce a cambiare le regole viventi, sbalordendo tutti. Fino ad allora solo i cittadini con un censo tale da permettersi un’armatura potevano prestare il servizio militare e venivano mobilitati a rotazione partendo dalle classi più benestanti e in proporzione alle necessità, soltanto per la durata della guerra. Il neoconsole, invece, comincia ad arruolare gente proveniente dalle classi sociali più umili, “accettando tutti i volontari, per la massima parte nullatenenti […]; e, del resto, se uno mira al potere gli servono proprio i poveri, dato che non hanno nulla da perdere e ai loro occhi tutto quello che rende è onorevole” (Sallustio, Giugurta, 86).
Adesso anche i poveri (anzi, soprattutto essi) hanno sufficienti motivazioni per arruolarsi: certo, rischiano la vita, ma intanto possono assicurarsi il cibo quotidiano, e poi, se la fortuna li assiste, possono tornare a casa con un pingue bottino. Lo stesso vale anche per molti criminali, che vedono nell’arruolamento l’unica possibilità di evitare di scontare la pena. Questa accozzaglia di gente, ciascuno con la propria personale spinta razionale ed emotiva, va ad ingrossare i ranghi di un esercito, che, ovviamente, è formato anche da cittadini benestanti e perfino di aristocratici, desiderosi semplicemente di prestigio e di gloria. Con la riforma di Mario la leva diventa volontaria e, di fatto, si arruola una massa di poveri diavoli, che non hanno nulla da perdere (THÉBERT 1993: 163).
L’innovazione di Mario, che si manterrà anche sotto l’impero, fa sì che i soldati si legano strettamente al loro comandante e da lui si aspettano ricompense e, per la prima volta, un generale ha l’opportunità di servirsi del suo esercito per la propria gloria personale e anche per puntare al potere assoluto, come avverrà dai tempi di Cesare e Pompeo in avanti. In tal modo all’esercito cittadino che combatte per lo Stato, subentra un esercito di mestiere, che combatte per se stesso e per il suo comandante. Insomma, a partire da Mario, l’esercito non si pone più al servizio della difesa e della sicurezza pubblica, ma di chi offre di più, e la Res pubblica non rappresenta più l’interesse generale dei cittadini, ma è in balìa dei generali e delle loro ambizioni. Quel po’ di democrazia che aveva contrassegnato i primi secoli della Repubblica, da questo momento è solo un ricordo. Ma di questo i romani non si avvedono, distratti come sono dai successi di Mario.
Due anni dopo, la guerra giugurtina giunge a conclusione con una vittoria di Roma. Divenuto l’idolo del popolo, Mario viene eletto al consolato per diverse volte consecutivamente dal 104 al 100 e la sua gloria raggiunge il culmine dopo un’altra vittoria ottenuta contro i Teutoni e i Cimbri. Finiti gli impegni militari, Mario si cimenta nella vita politica, alla quale però non è avvezzo, e questa volta comincia ad assaporare l’insuccesso. Potrebbe godersi i frutti della sua carriera e vivere in pace e, invece, la sua smisurata ambizione lo spinge a ritornare sui campi di battaglia, alla ricerca di nuovi traguardi e nuova gloria, finendo per inimicarsi potenti aristocratici, come Silla (138-78), e perdere il sostegno entusiastico delle masse.
Dopo Mario si aprono nuovi scenari nella vita sociale e politica dei romani, che porteranno al crollo della Repubblica. I principali protagonisti della nuova era sono i comandanti militari, che acquistano potere e influenzano sempre più la politica del Senato. Sono loro che si avvantaggiano maggiormente dalle campagne militari, grazie anche ad una politica redistributiva compiacente, mentre le masse popolari devono accontentarsi delle briciole. Per il cittadino comune la guerra è un affare, ma solo a condizione che gli procuri abbastanza terra da poterci vivere. Si potrebbe dire che i romani vanno in guerra per procurasi la terra e, una volta che hanno raggiunto lo scopo, sono maggiormente motivati a favore della pace.
La terra proviene in buona parte dalle conquiste militari. Essa viene a formare il cosiddetto ager pubblicus, che appartiene a tutto il popolo romano e deve, dunque, essere distribuita in modo equo a quei cittadini, che sono disposti a coltivarla. Il problema è che il fabbisogno di terra tende ad aumentare col tempo. Si dice che Romolo avesse assegnato a tutti i Romani un campo della superficie di due iugeri (0,25 ettari), che probabilmente andavano ad aggiungersi alla possibilità di sfruttare terre comuni. Quando è nominato dittatore, Cincinnato coltiva un podere di quattro iugeri. Secondo Livio, dopo la caduta di Veio (395), il senato emana un decreto che assegna ad ogni plebeo sposato sette iugeri del territorio veientano (V, 30). Mario ritiene sufficienti 14 iugeri, mentre le riforme graccane prevedono lotti di 30 iugeri per ogni contadino.
Secondo la legge della Repubblica, l’assegnazione dell’ager pubblicus deve tener conto della capacità di coltivazione dell’assegnatario e comunque entro il limite massimo di 500 iugeri, ossia 125 ettari. Di fatto però le famiglie patrizie ne possiedono ben oltre 500 iugeri, che fanno lavorare non solo a schiavi o a liberti, ma anche a cittadini poveri, loro clienti, che devono consegnare parte del raccolto al proprietario (KOLENDO 1993: 217-32).
Se, sotto la monarchia, la terra era coltivata da sudditi liberi e proprietari, adesso si afferma la figura del grande proprietario terriero, che non lavora direttamente la terra, ma la affida a coloni e schiavi. Questo fenomeno diviene eclatante a partire del III secolo, dopo le guerre puniche, ed è all’origine di importanti lotte sociali, che segneranno il secolo seguente. All’inevitabile scontento dei plebei si aggiunge quello degli schiavi, che costituiscono l’altro grande fenomeno sciale della tarda Repubblica. Armi alla mano, essi si ribellano a Roma in due riprese (135 e 73) e, mentre ciò accade, i patrizi continuano a baruffare per il potere, fino ad abbattere la Repubblica. Ciò avviene, per la prima volta, con Lucio Cornelio Silla (82-79), che però, spontaneamente, si ritira a vita privata, lasciando in piedi l’ordinamento repubblicano.
Nonostante i segni di crisi della Repubblica, la fede nella superiorità del modello romano rimane salda nel cuore della gente, e così pensa ancora Cicerone (Rep. I, 46). Ecco perché Roma, a differenza dei Greci, non avverte il bisogno di elaborare teorie politiche astratte: essa vede in sé un ineguagliato modello vivente, un modello operativo, che non necessita di costruzioni ideologiche. Roma è paga della propria esistenza e non fa registrare significativi progressi, nemmeno in campo scientifico. Lo scarso interesse provato dai Romani nei confronti della scienza e della tecnica è forse dovuto alla disponibilità di manodopera a basso costo. Il famoso «pragmatismo» romano è solo sociale, non tecnologico. Esso riguarda “l’amministrazione, la politica, il diritto, l’organizzazione militare; in misura minore le tecniche della persuasione e del consenso: l’oratoria, la satira” (SCHIAVONE 1996: 161). La produzione letteraria di questo periodo è rappresentata principalmente dalle opere di Lucrezio (96-53), Catullo (84-54) e Sallustio (86-34), e dai manuali a carattere enciclopedico di Posidonio (135-50).
13. Presente e Futuro
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