2.22.1. Il vescovo di Roma nella metà del V secolo
Grazie alla debolezza dell’impero, il vescovo di Roma può cominciare a porre le basi giuridiche del suo primato e invocare il passo di Mt 16,18, a sostegno della sua rivendicazione. Così aveva fatto Damaso, così fa Leone I Magno (440-461), la prima grande figura di vescovo monarchico , il primo vescovo di Roma a fregiarsi del titolo “pontifex maximus”, pur senza mai trovare il consenso unanime da parte degli altri vescovi. Ai tempi di Leone Magno, cinque sedi vescovili (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme e Roma) godono di un particolare prestigio, anche se si tratta di “una questione più di autorità morale che di potere amministrativo” (DUFFY 2001: 61). Roma è, sicuramente, la chiesa più autorevole di un Occidente in netta fase di decadenza, ed è ciò che fornisce le condizioni favorevoli per un parziale attecchimento, in questa parte di mondo, della teoria del primato petrino, che rimane inconcepibile in Oriente. Tutti i vescovi rimangono, comunque, sottoposti all’imperatore, compreso il vescovo di Roma, anche se la lontananza da Costantinopoli e le invasioni barbariche, lo pongono in una condizione di maggiore autonomia nei confronti dell’imperatore rispetto a quella di altri vescovi. Odoacre si limita ad avocare a sé il diritto di ratifica dell’elezione del papa, che continua a svolgersi secondo le consuete modalità, e cioè per elezione ad opera del Senato, che agisce in rappresentanza del popolo di Roma.
Se ora confrontiamo la chiesa del V secolo col movimento cristiano dei primi settant’anni, non possiamo non coglierne l’abissale differenza. “La Chiesa – osserverà Nietzsche – è esattamente ciò contro cui Cristo predicò, e contro cui insegnò a combattere ai suoi discepoli” (1994: 99). Ed è proprio questo allontanamento da Cristo che – come dirà Nietzsche –, indurrà i cristiani ad elaborare teorie teologiche di ripiego, come quella della “giustificazione mediante la fede”, che, in pratica, serviranno a coprire il fatto evidente che i cristiani non vogliono, o non riescono, a fare ciò che è loro prescritto dalle Sacre Scritture.
2.22.2. Dal Paganesimo al Cristianesimo
Dal punto di vista culturale, l’evento di maggior rilievo che si registra sotto l’impero di Roma è il tramonto del paganesimo (ossia di quella cultura che si era formata nell’antica Grecia e che poi era stata diffusa nel mondo dalle armi macedoni e infine fatta propria da Roma) e l’avvento del cristianesimo. In un primo momento, la nuova religione riesce a far presa prevalentemente sugli strati più umili della popolazione, soprattutto grazie al rapporto estremamente favorevole tra ciò che promette (giustizia e immortalità) e ciò che chiede in cambio (accettazione acritica di alcuni dogmi, ubbidienza cieca alle autorità ecclesiastiche, partecipazione a semplici riti, disposizione alla solidarietà). Inizialmente, gli imperatori ignorano la nuova religione o la osteggiano, mentre i dotti la denigrano. Tra i più lucidi critici della dottrina cristiana vanno annoverati Celso (II sec.) e Porfirio (III sec.), entrambi esponenti della cultura ellenistico-romana, all’epoca dominante presso i pagani colti. Lo scontro si rivela insanabile, tanto profonde sono le differenze che separano le due culture. Vediamone alcune:
• Il cristianesimo esige “fede cieca, condannando il dubbio che i greci consideravano come sorgente di ogni filosofia” (NESTLE 1973: 487).
• I cristiani credono al di fuori di ogni ragione, mentre i Greci vogliono tutto vagliare proprio alla luce della fredda ragione.
• “Per i greci il mondo è eterno, non meno della divinità che in esso opera. Esso dunque non ha principio, né fine. Il cristiano invece parla di una creazione del mondo e di una fine del mondo” (NESTLE 1973: 499).
• “Alla fede dei cristiani in una rivelazione soprannaturale l’uomo antico contrappone la naturale conoscenza del mondo, resa possibile dal proprio spirito affine a quello divino” (NESTLE 1973: 514).
• “Il cristianesimo ha spostato il centro di gravità dell’esistenza da questo mondo a un mondo nuovo, sopraterreno, mentre l’uomo antico ha le sue radici nell’aldiquà” (NESTLE 1973: 515).
È stato notato che le osservazioni dei pensatori pagani sono tanto pertinenti da risultare ancora “largamente condivise dal pensiero moderno” (NESTLE 1973: 515) e che la nuova religione è palesemente inferiore culturalmente nei confronti della cultura ellenistica. “Confrontando gli scrittori avversi al cristianesimo con gli apologeti cristiani –scrive Nestle–, si acquista la certezza che la superiorità spirituale era dal lato dell’ellenismo. Nonostante questo, ha vinto il cristianesimo” (NESTLE 1973: 517). Perché? Dicevamo delle masse. La cultura ellenistica, insistendo sull’uso della ragione, sull’immortalità legata alle opere, si rivela più adatta ad una ristretta èlite culturale, particolarmente dotata e desiderosa di impegnarsi in imprese memorabili, e non può esercitare alcuna attrazione sul popolo. La gente comune preferisce “assicurarsi l’immortalità per vie più comode” (NESTLE 1973: 519) e, certamente, aderire ad una dottrina per fede è molto più semplice che assimilarla attraverso uno studio filosofico, così come assicurarsi la vita eterna attraverso semplici gesti, alla portata di tutti, risulta di gran lunga preferibile al fatto di doversi cimentare nell’improbabile tentativo di affidare le speranze di immortalità alle proprie opere e al ricordo di sé.
Inoltre, in un periodo di crescente impoverimento delle popolazioni e di persistente disagio della gente di fronte alle nefandezze della politica e della guerra, l’elevato contenuto etico del messaggio cristiano finisce per conquistare un certo numero di intellettuali, che traducono quel messaggio nelle categorie del linguaggio filosofico corrente e, così facendo, riescono ad elaborare una “filosofia” cristiana, da contrapporre alla tradizionale filosofia pagana, dotando la nuova religione di una solida base ideologica.
Se ora guardiamo la nuova religione con gli occhi dell’imperatore, notiamo che essa presenta un duplice ordine di aspetti: negativi gli uni, positivi gli altri. I principali aspetti negativi consistono nel particolare atteggiamento dei Cristiani, che rifiutano di prestare il culto all’imperatore e negano taluni principî consolidati dal tempo, come la legge del più forte, il diritto di uccidere e lo sfruttamento degli schiavi. Contro questi principî i Cristiani predicano l’uguaglianza e la fratellanza di tutti gli uomini, il pacifismo e la non-violenza, e si oppongono alla guerra e alla necessità di combattere e di uccidere, nemmeno per difendersi dalle orde dei Barbari, che premono ai confini e penetrano fino al cuore dell’Impero, seminando terrore e morte. Tutto ciò è visto come un pericolo per lo Stato e induce gli imperatori a considerare il cristianesimo una dottrina pericolosa, da estirpare.
Tra gli aspetti positivi dobbiamo ricordare l’etica dell’amore, della solidarietà e del perdono, che esercita un irresistibile fascino, soprattutto sulle masse e che, messa in pratica, consente alle prime comunità cristiane di lenire gli effetti nefasti dell’indigenza e di favorire la pace sociale. In un periodo di crisi, qual è quello in cui versa Roma nel IV-V secolo, questi aspetti positivi finiscono per accrescere il loro peso, tanto da indurre l’imperatore pagano a far propria la nuova fede.
Anche la fede nell’immortalità dell’anima e nella giustizia divina giocano un ruolo non secondario a favore della nuova religione, che promette la riparazione futura di ogni ingiustizia fra gli uomini. E chi, nella Roma a partire dal terzo secolo in poi, può sentirsi al riparo di ingiustizie? Non solo i plebei si sentono vittime di ingiustizie di ogni tipo, ma anche i patrizi hanno di che lamentarsi. Anzi, dopo lo stop all’espansionismo, sono soprattutto i ricchi a rischiare di rimetterci, mentre i poveri hanno poco da perdere, ma nemmeno ragioni per combattere. I ricchi trovano ingiusto che i loro latifondi producano sempre meno, a causa dell’incuria e dell’indolenza dei contadini e degli schiavi, che i loro beni e le loro stesse persone siano sempre di più minacciate da una crescente e incontenibile criminalità, che i plebei li ritengano responsabili del malessere sociale, che i Barbari diventino sempre più tracotanti e irrispettosi nei loro confronti, distruggano le loro case, devastino le loro campagne e si approprino dei loro beni. Perfino gli imperatori non si sentono al sicuro, e hanno ragione: molti di essi muoiono di morte violenta, sul campo di battaglia o vittime di intrighi e tradimenti. Il bisogno di una maggiore giustizia è avvertito da tutti e trova nel cristianesimo una valida risposta. Non dobbiamo sorprenderci perciò se anche i patrizi subiscono il fascino della nuova religione.
Per tutti, le comunità cristiane costituiscono altrettanti modelli edificanti in una società sentita come profondamente ingiusta e degradata. Agli occhi dei pagani ciò sta a testimoniare la superiorità del dio dei cristiani e quindi l’opportunità di riconoscerlo e farselo amico mentre, da parte loro, i Cristiani vedono nella crisi dell’impero la giusta punizione di Dio per coloro che si affidano alla logica di questo mondo. Proprio in virtù di questa duplice faccia, si può comprendere il contrastante atteggiamento degli imperatori del IV secolo nei confronti della nuova religione. Alcuni, come Diocleziano e Giuliano, la considerano un fenomeno sociale negativo e la combattono, altri, come Costantino e Teodosio, la sostengono. Il primo, con l’Editto di Milano (313), riconosce la libertà di professare qualsiasi religione, ponendo fine così alla persecuzione dei cristiani. Il secondo, con l’Editto di Tessalonica (380), proclama il cristianesimo religione ufficiale dello Stato. E non possiamo biasimarlo: ai suoi tempi, la Chiesa cristiana è la sola istituzione valida dell’Impero d’Occidente.
Già prima di Costantino il potere dell’imperatore doveva essere mediato attraverso i suoi rappresentanti nelle province, senza la quale esso sarebbe risultato astratto e di scarsa efficacia, specie nelle regioni più lontane. Costantino è il primo a cercare la collaborazione dei vescovi. Con Costantino cambia lo status sociale dei vescovi, i quali diventano “eminenti personalità, pari ai più ricchi senatori della città” (DUFFY 2001: 56). Anche l’imperatore adesso ha bisogno del vescovo e, di fatto, ricerca il suo appoggio per ottenere la pace sociale e il sostegno delle classi più umili e, più le cose vanno male, più cadono in discredito le istituzioni tradizionali dello Stato, ormai ritenute evidentemente incapaci di far fronte alle mutate condizioni socio-politiche e più acquista rilevanza la diocesi. È così che i vescovi, prima si affiancano alle classi dirigenti tradizionali e poi le soppiantano, divenendo i nuovi interlocutori privilegiati dell’imperatore e i principali responsabili della difesa della legge e dell’ordine sociale (BROWN 1995: 219).
13. Presente e Futuro
15 anni fa
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