lunedì 7 settembre 2009

2.3. Il cristianesimo nel I secolo

L’anno 70 è testimone di un evento straordinario: a seguito di una rivolta ebraica, i romani espugnano Gerusalemme e devastano il tempio. Molti cristiani esultano, vedendo in ciò il giusto castigo che Dio infligge a coloro che hanno messo in croce il proprio figliolo, e vanno prendendo le distanze dagli ebrei. Lo stesso evento è anche interpretato come un segno che annuncia l’imminenza del Regno e rafforzai cristiani nella loro fede. Pochi anni dopo, l’eruzione del Vesuvio (79) viene vista come un ulteriore segnale dell’imminente ritorno del Signore, che sembra però essere smentito, l’anno seguente, quando i romani inaugurano con pompa magna l’anfiteatro Flavio. Anche se i dati appaiono contrastanti, i cristiani pensano che essi si accordano perfettamente con la loro fede nella parusia. È un momento magico per il cristianesimo nascente, un momento di grande fervore religioso. Dal 70 al 100 vengono redatti i quattro vangeli canonici, insieme al altri, che poi saranno ritenuti apocrifi, nei quali si ribadisce che il regno è più vicino che mai. La fede è alle stelle. I cristiani mettono in pratica il comandamento dell’amore fraterno e alcuni vendono i propri beni o li mettono a disposizione delle comunità. È una gara di solidarietà, davvero sublime, che porta le prime consistenti ricchezze alle chiese e, nello stesso tempo, fa nascere l’esigenza che qualcuno le amministri.
Il cristianesimo attira molti fedeli, non solo in virtù del messaggio contenuto nella “lieta novella”, ma anche per lo stile di vita delle comunità cristiane, che è improntato alla solidarietà e all’amore scambievole. A Roma questo modo di vivere rappresenta un’autentica novità ed è visto da molti come un interessante modello alternativo a quello dominante, mentre non poche figure di intellettuali e di ricchi idealisti ne subiscono il fascino e accettano di convertirsi. Tuttavia, col passare degli anni, e in special modo sotto Traiano (98-117), le evidenti buone condizioni di salute dell’impero rendono non più sostenibile lo stato di trepida attesa della parusia e inducono le comunità cristiane ad organizzarsi intorno alla figura di un capo, chiamato vescovo (che significa “sorvegliante”), che viene eletto democraticamente dall’assemblea dei fedeli. È da ritenere estremamente improbabile l’esistenza di vescovi prima di Traiano e, per conseguenza, il primo possibile vescovo di Roma è Alessandro I (105-15).
I vescovi vengono eletti dalla comunità e si comportano da uomini santi: soccorrono, sostengono e aiutano, moralmente e materialmente, i bisognosi, sospirano e pregano perché Cristo intervenga in qualche modo in questo misero mondo per migliorare le condizioni dei credenti. È un momento magico per il cristianesimo. Nelle chiese più grandi e più ricche il vescovo diventa una figura importante, sia in quanto depositario di una conoscenza sacra, sia in quanto amministratore di un cospicuo patrimonio. È il caso di Ignazio, vescovo di Antiochia (100-107). La sua autorità è grande, come pure la sua responsabilità. Nelle sue funzioni, egli può contare sulla collaborazione di figure minori, come i presbiteri e i diaconi. Le sue lettere attestano già l’elevato livello di organizzazione di alcune comunità cristiani.
Uno dei primi problemi che i vescovi si trovano a dover affrontare riguarda la condotta peccaminosa di alcuni battezzati. Essendo opinione comune che l’unico modo di cancellare il peccato è il battesimo (ancora non si conosce la confessione), quale sarà la sorte di coloro che peccano dopo essere stati battezzati? A questo proposito, Erma, fratello del vescovo di Roma, Pio I (140-155), scrive Il pastore, dove esorta i cristiani a non cadere in peccato e, siccome la cosa è altamente improbabile, ecco che comincia a diffondersi il costume di battezzarsi il più tardi possibile, meglio se in punto di morte, per ridurre il rischio di morire in peccato. Anche se rimane in buona sostanza irrisolta, la questione non è tale da intaccare minimamente l’elevato tenore morale delle comunità cristiane, che si muovono in sintonia con lo spirito evangelico.

2.3.1. Il regno di Dio
Nel Nuovo Testamento traspaiono i valori e lo stile di vita delle prime comunità cristiane, che si rispecchiano nella fede in un regno di Dio imminente (Mt 16,28). Questi primi cristiani non hanno alcun interesse ad elaborare un modello politico alternativo a quello vigente, l’unico loro scopo essendo quello di mostrarsi degni di quel Regno (Mt 6,33) che lo stesso Cristo in persona verrà a creare dal nulla. Nell’attesa di questo evento, continuano a vivere da buoni cittadini e danno a Cesare quel è di Cesare (Mt 22,21). In realtà, quei valori e quello stile di vita, che sono così diversi dall’etica comune, rappresentano una sorta di anticipazione di quel Regno che sta per arrivare, così come i primi cristiani lo concepiscono. È come se essi dicessero: “Noi non sappiamo come sarà il regno di Dio, ma lo immaginiamo così”.
Ora, poiché fra i primi cristiani ci sono quanti hanno conosciuto personalmente Gesù, o almeno i suoi apostoli, c’è da credere che il modello di società da loro offertoci rappresenti la più fedele interpretazione possibile del regno di Dio, che era stato preannunciato dal Cristo. I valori e lo stile di vita dei primi cristiani possono pertanto essere elevate a modello di riferimento di tutte le comunità cristiane in avvenire. Ma come se lo immaginano il regno di Dio i primi cristiani? Come pensano che sarà il nuovo mondo sociale che Cristo verrà ad instaurare sulla terra? Gli evangelisti non si preoccupano di darcene una descrizione ordinata e metodica, di tipo scolastico, limitandosi ad offrirci alcune idee di carattere generale e alcuni spunti di riflessione, che sono sparsi qua e là nel loro racconto.
Nel regno di Dio si segue una logica di uguaglianza, sia a livello sociale, dove nessuno è autorizzato a far gravare su altri il peso della propria autorità (Mt 20, 25-27), sia a livello familiare, dove nessuno è autorizzato a farsi chiamare “padre” perché tutti sono fratelli (Mt 23,9), sia a livello culturale, dove a nessuno è concesso di ergersi a “maestro” di altri (Mt 23,8), perché tutti sono pari. È la proclamazione implicita del principio di uguaglianza.
Nel regno di Dio la famiglia è superata (Lc 12,51-3; 18,29-30) e non costituisce più il luogo privilegiato della formazione del cittadino. Al legame di sangue viene sostituito il rapporto diretto e individuale con Dio (Ap 3,20). È un chiaro messaggio di tipo individualistico.
Nel regno di Dio non sono i genitori a prendersi cura dei figli e a garantire loro un futuro, ma è Dio stesso a farsi garante della soddisfazione dei bisogni individuali, è lui che assicura a ciascuno il minimo per la sussistenza e per una vita dignitosa (Mt 6,26; Lc 12,24). È l’affermazione del diritto ad un minimo.
Nel regno di Dio non ci sono tante leggi complicate, ma sono sufficienti pochi comandamenti, che possono essere ridotti ad un’unica legge, semplice e chiara: la legge dell’amore (Mt 7,12). Più concretamente, ciascuno è chiamato ad imitare Cristo (Gv 13,15; 1Cor 15,49; Ef 4,24; 5,17; 1Pt 2,21), e ciò significa, evidentemente, che ciascuno è ritenuto in grado di farlo. Come potenziali imitatori di Cristo, tutti gli uomini si trovano su un piano d’uguaglianza e ciascuno ha dei doveri e delle responsabilità. Ad imitazione di Cristo, ciascuno è tenuto a praticare l’imperativo categorico dell’amore incondizionato per il prossimo (Gc 2,8), nemici compresi (Mt 5,43-4), e il distacco dalle cose del mondo (Lc 12,20-1). È un vero inno alla solidarietà umana.
Solo agli imitatori di Cristo è riservato il regno di Dio (Lc 6,40; Gv 2,6; 14,12) e, poiché Cristo si presenta come l’uomo libero per eccellenza, l’esortazione a vivere secondo il suo modello costituisce una solenne proclamazione del principio di libertà.
L’attaccamento al denaro e la ricchezza individuale vengono considerati fattori incompatibili con il Regno (Mt 19,23). Da ciò l’esortazione a non accumulare tesori sulla terra (Mt 6,19): è impossibile servire a Dio e alle ricchezze (Mt 6,24). E allora? Ai ricchi che vogliono esserne degni del Regno viene consigliato di vendere quello che possiedono (Mc 10,21) e fare del bene. Sembra di scorgere una dura critica alla proprietà privata.
Nel regno di Dio non contano i riti (Lc 11,37-44), bensì le intenzioni e le buone azioni (Gc 3,13), non contano le parole ma i fatti (Lc 11,28), non contano le ricchezze (Lc 14,33) quanto l’impegno personale teso a mettere a frutto i propri talenti (Mt 25,14-30). È l’apoteosi del lavoro e della creatività personale.
Non vale nemmeno la legge del più forte, ed è per questo che s’invitano i cristiani a non rispondere con la violenza alla violenza (Mt 5,38-9) e a far prevalere la logica del perdono e del pacifismo. È un chiaro invito al disarmo.
I tribunali non sono previsti i e nessuno viene condannato (Mt 7,1), perché ciascuno dovrà rispondere delle proprie azioni direttamente ad un unico giudice, Dio. È come dire: niente prigioni. Non si riuscirebbe a comprendere questo messaggio se non lo si osserva alla luce di un’assenza della proprietà privata.
Circa il luogo dove sorgerà il regno di Dio, gli evangelisti si dividono in due correnti. Alcuni pensano che il Cristo trionfante insedierà il proprio trono sul monte Sion, a Gerusalemme, e da lì governerà il mondo intero (Gal 4,26; Ebr. 11,10; 12,22; Apoc. 21,2ss). Secondo altri, il regno di Dio è “utopico”, nel senso che esso non è definibile su base territoriale: la sua sede è là dove soffia lo spirito di Dio e dove ci sono imitatori di Cristo e i suoi membri sono tutti coloro che se ne mostrano degni, a qualunque nazione appartengano (Mt 8,11-12; 21,43; At 10,28). Dio, infatti, non fa differenza fra ebrei e gentili (At 15,9; 1Cor 12,13; Ef 2,14). È una netta condanna di ogni spirito statalistico e nazionalistico.
Cosa deve fare il cristiano in attesa del Regno? La “buona novella” induce i primi cristiani a comportarsi da subito nello stesso modo in cui essi ritengono che dovranno poi comportarsi nel regno di Dio. Essi allora rinunciano alla proprietà privata (Lc14,33), vendono i loro beni e mettono il ricavato a disposizione dell’intera comunità (At 2,44-5), disponendosi a vivere in condizione di parità, come dei veri e buoni fratelli. I primi cristiani vivono come se si trovassero già nel regno di Dio e, col loro esempio, ci indicano la via. È la negazione della società piramidale, realizzata attraverso la messa in pratica dei principî su esposti.

2.3.2. Il vescovo di Roma fra I e II secolo
Quasi tutti noi, sin da piccoli, siamo stati educati a credere che Gesù ha fondato una chiesa e che Pietro è stato il primo di una lunga serie ininterrotta di papi. Se però ripercorriamo il corso degli eventi storici, scopriamo una realtà ben diversa, e cioè che, alla morte di Gesù, i discepoli aspettavano il suo imminente ritorno sulla terra, e ciò basta ad affermare che è loro estranea l’idea di una chiesa organizzata e di un papato (CHIOVARO, BESSIÈRE 1996: 14). Inoltre, i dati in nostro possesso dimostrano che in nessun momento della sua vita Pietro è considerato vescovo di Roma. Vero è, invece, che, quando Pietro (e Paolo) vengono messi a morte, le comunità cristiane aspettano ancora la parusia, ossia il ritorno del Signore sulla terra e l’inizio del suo Regno. La situazione comincia a cambiare dopo la distruzione di Gerusalemme (70), essendo ormai evidente che la parusia potrebbe tardare per un tempo indeterminato, i leader religiosi della nuova generazione si danno un gran da fare a reinterpretare la loro fede (ne è prova la redazione dei Vangeli), ma non si riesce ad andare oltre la figura del vescovo. Insomma, in tutto il Nuovo Testamento “nulla vi è che possa essere direttamente accostato alla dottrina papale” (DUFFY 2001: 21).

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