Teodosio è l’ultimo imperatore che guida personalmente le legioni e la cui autorità è riconosciuta in tutto l’impero. Alla sua morte l’impero va ai due figli: Arcadio (395-408) regna in Oriente, Onorio (395-423) in Occidente. Entrambi rivelano una personalità debole e governano senza onore e senza lode.
Intanto, nella steppa asiatica, agli inizi del IV sec., gli Unni sono diventati così numerosi che le loro terre non sono sufficienti a soddisfare i loro bisogni, e ciò genera fermento. Le tribù si compattano e manifestano aggressività reciproca. Alcune tribù si uniscono al comando di un condottiero e abbandonano le loro terre in direzione di Cina, India e Impero romano, travolgendo e razziando tutto ciò che trovano lungo il loro cammino. Svevi, Vandali, Alani e Burgundi vengono sottomessi, mentre i Visigoti, nel tentativo di sfuggire a queste terribili orde, sciamano ad Occidente.
Sotto Onorio si mette in luce un generale barbaro, Silicone, che riesce ad arginare le avanzate di Alarico, re dei visigoti, ma, dopo il suo assassinio (408), Alarico entra a Roma e la saccheggia (410). Questo evento, che accade per la prima volta, dopo otto secoli, viene accolto con grande commozione e stupore, e fa da preludio alla definita caduta dell’Impero. Roma non è più quella di una volta e il suo declino è evidente. Negli ultimi anni del regno di Onorio, Goti, Burgundi e Franchi ottengono dominî permanenti in Gallia. Lo stesso avviene per gli Svevi in Spagna, per i Vandali in Africa e gli Ostrogoti in Pannonia: sono i primi regni barbarici indipendenti. Molte famiglie romane devono abbandonare le loro terre, per far posto ai nuovi arrivati, che, quasi tutti, finiscono per abbracciare il cristianesimo. Ormai Roma non è più una realtà distinta dai barbari, i quali, pur essendo lontani per tradizioni e cultura, risultano accomunati dalla stessa fede in Cristo.
Dopo Onorio, in Occidente si susseguono ben quindici augusti in mezzo secolo, segno evidente di crisi profonda. In effetti, Roma ha imboccato il viale del declino e si avvia mestamente alla fine. Qualche sprazzo di luce si nota sotto il regno di Valentiniano III (425-455), che, grazie alle imprese di Ezio, un valoroso generale, riesce a tenere a bada franchi, vandali e visigoti. La gloria e la popolarità di Ezio è tale da far montare la gelosia dell’imperatore, che lo fa assassinare (454). Valentiniano muore, assassinato a sua volta, un anno dopo, e con lui si estingue una dinastia che è durata novant’anni. Ormai l’impero ha poco da esprimere e si trascina penosamente fino al giorno in cui l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, viene deposto dal barbaro Odoacre (476), “capo di orde senza patria, un misto di rugi, eruli, sciri e turcilingi” (RENDINA 1996: 94), il quale assume i poteri che prima erano dell’imperatore. Il Senato continua a sussistere e amministra la città.
Dopo la caduta dell’impero, la chiesa rimane l’unica istituzione valida sia sotto il profilo organizzativo, che politico ed economico. L’Oriente, invece, rimane saldamente in mano all’imperatore. A Costantinopoli regnano in successione Teodosio II (408-450), Marciano (450-457) e Leone I (457-474), che, in tre, coprono un regno di oltre sessant’anni, a testimonianza della stabilità politica che regna in Oriente. Non più sede imperiale, Roma si va svuotando di persone e assume un aspetto alquanto dimesso. Ormai è solo una capitale simbolico-affettiva, priva di un reale peso politico. Anche le città di Alessandria e Antiochia, un tempo sedi prestigiose di patriarcati, sono in fase di declino. Adesso è Costantinopoli la capitale effettiva dell’impero, la nuova Roma.
2.21.1. Il cristianesimo nella prima metà del V secolo
In Occidente, la situazione è, sotto ogni aspetto, fallimentare, ma non per il vescovo di Roma, che porta avanti la sua politica di grandezza, in contrasto con la desolante crisi del mondo che lo circonda. Proprio nel periodo in cui si va consumando la lenta agonia dell’impero, infatti, la chiesa cristiana è in netta ascesa e ha motivo di essere fiera del cammino fatto in poco più di un secolo dopo Costantino. In quel periodo, essa è passata da una religione secondaria, limitata alle classi più umili, a religione di Stato e si estende a tutti i ceti sociali, imperatori compresi. È ben organizzata, intorno alla figura del vescovo, che è anche una personalità politica, possiede imponenti strutture ecclesiali e vasti terreni, che fa coltivare a contadini e coloni, e, soprattutto, è portatrice di un messaggio, che si adatta alle più svariate situazioni. Al povero, all’afflitto e all’emarginato offre parole di consolazione, infonde il coraggio necessario per tenere la testa alta e promette la beatitudine in un’altra vita. Al ricco offre la possibilità di avere salva l’anima, in cambio di generose offerte. All’uomo di potere offre la legittimazione del suo status per volere di Dio.
Innocenzo I (401-17) esercita il suo ufficio con un’autorità tale da renderlo agli occhi di molti “il primo papa”, ma il suo potere è ancora alquanto limitato. I vescovi, infatti, continuano ad essere eletti dal popolo dei fedeli e la loro nomina da parte del papa dev’essere ratificata da un funzionario imperiale, dopo aver verificato la validità dell’elezione stessa. Inoltre, non tutti sono disposti a chinare la testa dinanzi vescovo di Roma. Agostino, per esempio, nella sua lotta contro donatisti e pelagiani, non concede al papa il diritto di ultima parola. La situazione del primato petrino è ancora fluida.
Mentre si vanno rimpicciolendo le figure degli imperatori, si ergono le prime grandi figure di vescovi, come Leone I (440-461) a Roma, che, secondo alcuni, è il primo «vero papa». Leone I riesce ad allontanare dalla sua città Attila, ma non Genserico, è ciò basta a fare di lui un salvatore della patria. Sotto il suo pontificato si svolge a Calcedonia (451) un importante concilio ecumenico, che conferma il primato di Roma a Occidente, insieme ad un primato di Costantinopoli ad Oriente. Leone rifiuta di riconoscere questo canone e ribadisce i princìpi del primato del vescovo di Roma e della sacralità del potere, che domineranno durante tutto il corso del medioevo e caratterizzeranno il feudalesimo. La logica è semplice: il papa non è disposto a dividere il potere con nessuno; inoltre, ogni potere viene da Dio, perciò ogni autorità è sacra e sovrana. Di conseguenza, anche se un pubblico funzionario governa male, il cittadino non dovrà ribellarsi, ma piuttosto pregherà Iddio affinché lo illumini e lo induca ad un comportamento più saggio.
È evidente che l’imperatore difficilmente può chiedere di più: il paganesimo non gli offre una legittimazione altrettanto forte. Se si vogliono trovare delle ragioni, che possano aver indotto Costantino ad abbracciare la nuova religione, una è certamente questa. Unico Dio, unico Imperatore! A Costantino, che era un concentrato di ambizione, quella religione calzava a pennello. Ma, alla lunga, quella politica si rivela vantaggiosa solo per la chiesa, la quale, mentre l’impero agonizza e la plebe vive di stenti, manifesta una grande vitalità e continua a costruire sfarzose basiliche, impreziosite da raffinate opere d’arte. Il grido di San Gerolamo (347-420), “noi dobbiamo pensare alla croce e considerare la ricchezza nient’altro che fango”, si perde nel vuoto. La chiesa non ha nessun motivo di cambiare passo e direzione.
Se l’impero va in frantumi, il prestigio del papa cresce. Va bene così. Il vescovo d’Ippona, Agostino (354-430), che scrive La Città di Dio proprio in questo periodo, non sembra preoccupato, anzi coglie l’occasione per ribadire l’atteggiamento astensionista che aveva contraddistinto il cristianesimo delle origini. I cristiani, afferma Agostino, devono essere indifferenti al mondo politico e devono vedere in tutte le forme di governo altrettante opere umane necessariamente imperfette, che sono conseguenza del peccato originale. Essi perciò devono vivere su questa terra come pellegrini senza patria, in attesa che Dio edifichi la città ideale.
Non dissimile è la posizione di un altro illustre cristiano, Paolino di Nola (353-431), che, pur essendo membro di una famiglia aristocratica, diffida i ricchi dall’ammassare tesori su questa terra e li esorta a curarsi del futuro delle proprie anime e a rendersi degni di un regno di Dio, che immagina ancora imminente. “Il tempo è giunto; il Signore è ormai vicino; affrettatevi a prepararvi all’incontro del Re, finché ancora ve ne rimane il breve tempo” (Carme XXXI, 538-39). Il messaggio è chiaro: il cristiano deve allontanarsi dalla politica e dagli interessi materiali e recuperare l’etica della parusia e del regno di Dio, che ha smarrito. “Cristo, che si è fatto rifugio e rappresentante dei poveri, è motivo di vergogna per i ricchi, di gloria per i poveri” (Carme XXXI, 529-30).
13. Presente e Futuro
15 anni fa
Nessun commento:
Posta un commento