domenica 6 settembre 2009

1.7. Conseguenze economiche della guerra

L’erario dello Stato è alimentato dai bottini di guerra, oltre che dalle indennità e dai tributi annuali imposti ai popoli sottomessi. Le terre dei vinti passano a Roma, che ne assume la proprietà, e costituiscono l’ager pubblicus o terra demaniale, che lo Stato dà in gestione, ricavandone un ulteriore profitto. Spesso le terre pubbliche vengono lasciate agli stessi contadini che già le coltivano, per i quali cambia solo il destinatario delle imposte: prima era il loro re, adesso è Roma. L’esito della guerra, dunque, influisce poco sullo stile di vita dei contadini, mentre è determinante su quello dei grandi proprietari terrieri, i quali, in caso di sconfitta, devono cedere le loro proprietà ai vincitori. In ultima analisi, la guerra può essere considerata uno strumento attraverso il quale dei capi clan si uniscono sotto un capo comune e si impossessano con la forza della terra altrui, per poi distribuirsela. Da questo momento, nasce la proprietà privata. L’aristocrazia nasce in un secondo tempo, quando cioè i clan non si limitano a conquistare la terra, ma riducono anche a schiavitù le popolazioni residenti, costituendo stratificazioni sociali e regimi oligarchici. Da questo momento, la guerra diventa lo strumento per mezzo del quale la classe aristocratica vittoriosa incamera risorse sottraendole alla classe aristocratica perdente, ossia un mezzo di arricchimento, che obbedisce al principio: “il più forte toglie al più debole”.
Per i sottomessi, i sudditi, i nullatenenti o gli schiavi, di norma, la guerra comporta più rischi che vantaggi e, chiunque risulti vittorioso, la sorte un contadino o un soldato semplice, che siano sopravvissuti alla guerra, consiste semplicemente nel passaggio da un padrone all’altro, da un generale all’altro. E allora, perché un uomo nullatenente può accettare di arruolarsi e combattere, rischiando la propria vita? Possiamo individuare almeno due valide ragioni che sono in grado di spiegare lo strano fenomeno. La prima consiste nel fatto che spesso queste povere persone difettano del minimo per la sussistenza e vedono nell’arruolamento un modo per potersi almeno sfamare. La seconda ragione è che esse non vedono alternative valide all’impugnazione delle armi, che, se rifiutata, può comportare un altrettanto pericoloso isolamento dal popolo in armi, che equivale ad una morte sicura.
Una volta arruolatosi, il soldato deve accettare la dura vita militare, se vuole evitare le terribili conseguenze di una sua eventuale indisciplina, che vanno dall’esclusione dei benefici, alla tortura e alla morte: un soldato romano deve temere i suoi ufficiali più che i suoi nemici. La durezza della vita militare è compensata dalla paga regolare e dalla ricompensa statuita per la fine del servizio. Un soldato può anche sperare in qualche generoso donativo e nella possibilità di fare carriera nell’esercito, che dipendono dal suo generale. Pompeo, per esempio, distribuirà ai suoi soldati i tesori di Mitridate (GIBBON 1967: 64).
Nonostante le riforme sociali, le ricchezze provenienti dalle vittoriose campagne militari finiscono coll’avvantaggiare prevalentemente le famiglie patrizie e a concentrare ricchezza e potere nelle loro mani (ALFÖLDY 1984: 71). I plebei, invece, si impoveriscono e a nulla valgono le loro proteste: dopo qualche isolato successo, alla fine hanno la peggio e i loro rappresentanti di maggiore spicco, i fratelli Tiberio (162-133) e Caio Gracco (154-121), trovano la morte. Nonostante tutto, i popolani rimangono emarginati dal potere e il solco tra le prime classi sociali (la senatoriale e la equestre) e il resto della popolazione diviene sempre più profondo: la società romana appare costituita da un piccolo numero di cittadini molto ricchi e da sterminate masse di cittadini poveri. Il discorso pronunciato al Senato da Tiberio Gracco descrive bene la situazione socio-economica della plebe romana nella seconda metà del II secolo:
Le fiere che abitano in Italia hanno una loro tana, hanno un giaciglio su cui riposare. Ma coloro che combattono e muoiono per Roma hanno solo luce e aria e nient’altro. Senza casa, senza residenza fissa, vagano con la moglie e i figli. I generali ingannano questi soldati, quando al momento di combattere li incitano a difendere dal nemico il focolare domestico e la tomba degli avi: nessuno infatti di questi Romani, che sono tanti, ha un altare o un sepolcro di famiglia! È solo per il lusso e la ricchezza dei patrizi che essi combattono e muoiono. Solo i patrizi si dividono le terre conquistate, ai soldati non rimane nemmeno una zolla di terra.
Con i Gracchi si chiude la tormentata vicenda della «democrazia» a Roma e non passerà molto prima che la stessa repubblica tramonti lasciando il posto al principato.
Nella fase di espansione, la guerra aveva finito per rappresentare, almeno per i patrizi romani, “la più efficiente delle attività produttive” (SCHIAVONE 1996: 82). “La rapina bellica si rivelava l’unico meccanismo di autoalimentazione che l’economia romana era riuscita a costruire: e il circuito guerra-conquista-ricchezza-nuova guerra finì presto col risultare l’autentico motore di tutto il sistema” (SCHIAVONE 1996: 87). All’indomani della terza guerra punica, la spinta espansionistica si è però allentata e Roma sembra accontentarsi di controllare l’impero conquistato, servendosi dei suoi uomini più illustri, cui affida il comando delle legioni. La gran parte dei soldati ha di che campare non ha più tanta voglia di combattere e rischiare la vita. Così il nobile Metello, impegnato nella guerra in Numidia contro il ribelle Giugurta, stenta a giungere ad una vittoria definitiva.

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