lunedì 7 settembre 2009

2.25. A mo’ di conclusione: una panoramica del mondo occidentale (500 a.C. – 500 d.C.)

Il principio di forza, che abbiamo visto operante sin dagli albori della storia, rimane padrone del campo anche nel millennio che sta a cavallo dell’inizio della nostra era. I romani sono costituiti da piccole comunità di pastori che, per resistere alla potenza etrusca, si uniscono e fondano una città, una piccola città come ce ne sono tante, che è situata sulle rive del Tevere, non lontano dalla sua foce e nel bel mezzo della Penisola italica. Spinta da fattori contingenti, che consistono principalmente nella necessità di mettersi nelle migliori condizioni possibili per sopravvivere in un mondo pieno di temibili competitori, questa città a poco a poco assorbe la cultura etrusca, si allarga e occupa i territori immediatamente confinanti finché, tappa dopo tappa, nell’arco di qualche secolo, si trova ad essere padrona di uno dei più grandi imperi della storia.
I territori che essa va via via annettendo non sono disabitati, né sono acquistato con denaro, e nemmeno derivano da un principio di diritto. Quei territori appartengono ad altri, a gente che vi lavora, vi abita e li vede come parte di sé. I romani prendono quelle terre con la forza delle proprie legioni e, con la stessa forza, inducono molti di coloro che prima vi lavoravano come proprietari a lavorarvi come schiavi, mentre molti altri, che già erano schiavi, passano da un padrone ad un altro. Se l’impresa dei romani deriva dalla forza, ne consegue che chiunque sia dotato di forza può sperare di realizzare un’impresa di conquista fino a fondare un regno o un impero. Basti ricordare il caso di Genserico. Chiunque abbia forza sufficiente può sperare di emulare le gesta dei romani.
Immaginiamo di poter seguire queste vicende dall’interno di un satellite ad un’altezza di mille km sulla verticale di Roma. Da questa postazione potremmo vedere la città di Roma, che sta proprio sotto di noi, e poi Veio, Volterra, Benevento, Taranto, Palermo, Cartagine, Tanis, Gerusalemme, Biblo, Ninive, Babilonia, Smirne, Atene, Mileto e tante altre. Potremmo anche vedere masse di uomini che si spostano da un luogo all’altro, in cerca di posti più sicuri e più ricchi: non sono facili da controllare come lo può essere una città, ma si capisce che costituiscono dei potenziali centri di forza. Sono i Sanniti, i Liguri, i Celti, gli Illiri, gli Iberi, i Berberi, i Libici, i Lidi, i frigi, i Traci, gli Slavi, i Germani, e molti altri. Dal nostro satellite potremmo notare che, col passare del tempo, alcune città si vanno ingrandendo, abbellendo e circondando di alte mura, mentre altre città vanno decadendo o vengono distrutte, mentre talvolta avviene che una massa di uomini, spinta da una carestia o dall’eccessivo incremento demografico o dalla pressione di nemici esterni o da altre ragioni, si unisca sotto la guida di un capo e metta in cerca di territori da sfruttare e città da depredare.
A poco a poco, sotto i nostri occhi, la situazione comincia a cambiare. Roma estende il suo dominio su buona parte della Penisola italica, Cartagine pone solide basi in Sicilia, Sardegna e Spagna e le sue navi solcano il Mediterraneo, un generale macedone si spinge fino in India e conquista un immenso impero, dove si diffonde la cultura greca, altre regioni rimangono allo stato tribale, come la Mauritania, la Numidia, la Cirenaica, la Libia, la Tracia, l’Illirico, il Norico, la Rezia, la Germania, la Gallia, la Britannia e gran parte della Spagna. In tutte queste regioni si formano dei centri di potere molto frammentati, che si rivelano incapaci di resistere all’avanzata delle legioni romane. Alla fine, Roma si impone su tutti e crea un vasto impero. Qualcosa di simile accadrà in Russia, Cina, India, Giappone, Indocina, Persia, America e Africa (vedi blog seguente).

2.24. La fine dell’Impero

Perché crolla l’Impero romano d’occidente? Le cause sono molteplici. Esauritasi la tendenza espansionistica e venendo a mancare la speranza di conquistare nuove ricchezze, gli imperatori pensano a realizzare un equilibrio interno stabile e soddisfacente. Si tratta, in pratica, di trovare il modo di far cooperare armonicamente i pochi ricchi, che ormai vogliono solo godersi la propria condizione, con le sterminate masse dei poveri, che devono tribolare per sopravvivere e che, sempre più spesso, sono all’origine di tumulti e rivolte. Ma l’impresa si rivela più ardua del previsto e, alla fine, risulta impossibile da realizzare, non solo perché molti disperati si danno al brigantaggio e insidiano i beni dei ricchi, con conseguente turbamento dell’ordine sociale, ma anche perché i generali barbari diventano sempre più sfrontati e minacciano di far crollare l’Impero da un momento all’altro. È perciò necessario, da un lato, prevenire o sedare i disordini interni, che scoppiano un po’ dovunque, dall’altro lato approntare una difesa efficace contro la minaccia di popolazioni barbariche, che sono discretamente organizzate e molto motivate. In entrambi i casi, si rende necessario disporre di un forte esercito, ma qui sta forse la principale causa della caduta dell’Impero.
Quando si trattava di prendere le armi per conquistare un paese potevano essere d’accordo tanto i ricchi, che vi vedevano un’occasione per incrementare la propria ricchezza, quanto i poveri, che speravano nella possibilità di beneficiare in qualche modo dalla spartizione del bottino. Adesso, che la guerra è divenuta di tipo difensivo, nessuno pensa di trovarvi un vantaggio: i ricchi vi vedono solo un’inutile spesa e un altrettanto inutile pericolo per le proprie vite, i poveri solo rischi per sé e per le proprie famiglie, senza avere nulla in cambio. Perciò, tanto l’aristocrazia quanto il popolo si chiudono nel loro particolare e si mostrano estranei alla causa dello Stato. Fra le principali cause di debolezza dell’impero, dobbiamo ricordare, per l’appunto, la tendenza disgregatrice dei latifondi, i cui signori tendono a chiudersi in una dimensione autarchica e rimangono insensibili ai problemi dello Stato centrale, che, per difendersi, deve affidarsi alla dittatura militare e alle imprese di improvvisati condottieri.
Solo per l’imperatore e per i più importanti esponenti politici, il timore di perdere potere e beni è così forte da indurli a lottare strenuamente allo scopo di tenere saldo l’ordine sociale. Solo loro vedono i barbari come un pericolo da cui difendersi, ma devono misurarsi con lo scarso entusiasmo generale. Gli alti costi dell’esercito permanente, dell’apparato burocratico e della corte imperiale comportano la necessità di mantenere alta la pressione fiscale, che viene dai più ritenuta eccessiva e intollerabile. Lo scontento è pervasivo, le rivolte popolari si fanno più frequenti ed è sempre più difficile domarle, mentre il brigantaggio, rendendo insicure le strade, determina un forte calo dei traffici commerciali. Sempre più spesso l’esercito dev’essere impiegato per mantenere l’ordine sociale, ma, anche quando esso è chiamato a respingere i barbari, il valore dimostrato dai soldati in battaglia risulta negativamente influenzato dalla loro scarsa motivazione. In queste condizioni, molti cittadini si sentono così insoddisfatti da preferire di vivere coi barbari piuttosto che restare tra i romani.
Secondo alcuni studiosi, tutte queste cause non sono sufficienti a spiegare la caduta dell’Impero, se non aggiungendo un’altra causa, che è altrettanto corrosiva e dirompente: il cristianesimo, con i suoi vescovi e le sue chiese, che, dopo Costantino, è divenuta una rilevante forza politica e culturale, dotata di una propria potenza economica e di una propria organizzazione. Ebbene, quando l’Impero vacilla sotto l’attacco disordinato dei barbari e quando Roma subisce l’umiliante sacco ad opera dei Visigoti (410), esso viene a mancare del necessario supporto morale da parte di una Chiesa, che appare più interessata alla propria sopravvivenza piuttosto che a quella dell’Impero stesso. I barbari sono visti come un nemico assoluto e irriducibile solo dai romani pagani, per i quali non può esserci alcuna possibilità di dialogo e nessun compromesso con le orde degli assalitori, ma solo un’alternativa drastica: o noi o loro.
Alla Chiesa invece poco importa se l’imperatore romano venga rimpiazzato da rozzi sovrani barbari, i quali, avendo necessità di darsi un’organizzazione amministrativa, possono essere agevolmente civilizzati, non solo lasciando intatto, ma anche accrescendo il proprio potere e il proprio prestigio. Da parte loro, nel passaggio da un padrone ad un altro, i sudditi cristiani guardano alla Chiesa come elemento di continuità e punto di riferimento, elevandola al rango di sommo organismo politico e culturale, in grado di condizionare le decisioni dei capi barbari e l’impiego della loro forza militare. In questa sua politica, la Chiesa assorbe gli uomini migliori, che, anziché offrire i propri servigi a Roma, decidono di servire la Chiesa stessa, dove avrebbero potuto realizzarsi anche senza Roma e nonostante i barbari. Insomma, la Chiesa si pone agli occhi di molti come una valida alternativa all’Impero morente e rende accettabile la presa del potere da parte dei barbari. Per tutta questa serie di ragioni, Momigliano ritiene che “vi è una relazione diretta tra il trionfo del cristianesimo e il declino dell’impero romano” (1987: 347).

2.23. Il fenomeno del banditismo ai tempi dell’Impero

La pratica delle attività rivolte ad appropriarsi dei beni altrui con la forza, com’è quella cui ricorre il bandito o il pirata o il malvivente, risale alla preistoria dell’uomo e costituisce un modo tra i più rispettati e onorevoli per sopravvivere in un mondo ostile (cfr. Aristotele, Pol. 1256 a-b). Il bandito è semplicemente un uomo coraggioso, che rischia la sua vita in azioni redditizie per sé e per il suo seguito e incarna la legge del più forte. Anche i Greci – racconta Tucidide – si sono dati nel passato alla pirateria “senza ancora vergognarsi di questo modo di agire, il quale anzi portava loro una certa gloria” (I, 5,1). Cicerone riferisce del pirata Barduli, che si comportò coi suoi uomini in modo così equo nella ripartizione del bottino da riceverne l’appoggio necessario per impadronirsi di una parte della Macedonia di cui divenne re nel IV secolo a.C. (Off. II 11, 40).
È col rafforzamento dello Stato che il brigante tende ad essere considerato un criminale, un deviante, un ribelle, un uomo pericoloso, da combattere ed estirpare, come si fa con le malepiante. E, in effetti, il più delle volte, il bandito finisce male, come dimostrano i seguenti due esempi.
Erodiano racconta di Giulio Materno, un militare di carriera, che decide di darsi al brigantaggio. Siamo in Gallia, nel II sec. d.C.. Materno imperversa con le sue scorrerie nella Gallia e nella Spagna, finché decide di marciare su Roma e si fa proclamare imperatore, poi, tradito dai suoi uomini, viene arrestato e giustiziato (BRENT 1993: 377-8). La storia di un altro bandito, Bulla Felix (inizi III sec.), ci viene riferita da Dione Cassio (77,10ss). Alla testa di seicento uomini Bulla saccheggia l’Italia e appare imprendibile, riuscendo a sfuggire anche a forze di gran lunga superiori, finché, con l’inganno, viene catturato e dato in pasto alle belve nel circo (BRENT 1993: 379).
Bandito e Stato sono agli antipodi, essendo i loro interessi antitetici e inconciliabili, eppure non sempre i due antagonisti si guardano minacciosi e non tutti i banditi finiscono male. Qualche volta finiscono in gloria. Ciò dipende da come si comporta il bandito. Se si lascia facilmente catturare, egli viene punito in modo esemplare, come si fa con un ladro o un criminale della peggiore risma, sì che a nessun altro venga voglia di imitarlo. Ma se il bandito resiste e se dimostra una buona capacità di offesa, intelligenza e coraggio, se riesce ad ottenere qualche successo, se incute paura, allora i legittimi capi di Stato iniziano a trattarlo con rispetto, come fanno coi loro pari, e si mostrano disposti a scendere a patti, pronti ad accoglierlo nella propria cerchia, a farne uno di loro: “tutti gli indizi fanno pensare a una sua «cooptazione» da parte dei potenti locali” (BRENT 1993: 364). Talvolta gli fanno delle concessioni, come il riconoscimento della signoria su un territorio, il comando di una legione, l’offerta di denaro o di un matrimonio politico, e altro ancora. Insomma lo premiano. E così se lo tolgono dalle calcagna.
È il caso di Alarico, capo ribelle dei visigoti, che, alla morte di Teodosio, comincia a seminare lo scompiglio nell’impero, devastando la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia e l’Illiria. Per toglierselo dai piedi, l’imperatore Arcadio lo nomina governatore dell’Illiria (396). Alarico si volge allora ad Occidente e invade l’Italia settentrionale, dove viene fermato da Ezio. In cambio del suo ritiro Onorio gli promette una grossa somma in denaro, che poi non gli darà, inducendolo a ritornare in Italia e a conquistare Roma (410). “Esempi di briganti-politici che furono in grado di legittimare il proprio potere sono assai ricorrenti, specie nel periodo del collasso dell’Impero, dopo la metà del V secolo, quando briganti isaurici come Zenone poterono diventare generali, consoli e perfino imperatori” (BRENT 1993: 382). Un altro esempio è Genserico, re dei vandali (427-477), che qualcuno considera “il più grande pirata del mondo antico” (FREDIANI 2005: 270). Egli costrinse l’imperatore d’Oriente a trattare e a riconoscerlo signore dell’Africa (442). Alla fine, riuscì ad estendere il suo dominio alla Sicilia, alla Sardegna, alla Corsica e alle Baleari, anche in questo caso facendosi regolarmente riconoscere dall’imperatore (476).

2.22. Dal Paganesimo al Cristianesimo

2.22.1. Il vescovo di Roma nella metà del V secolo
Grazie alla debolezza dell’impero, il vescovo di Roma può cominciare a porre le basi giuridiche del suo primato e invocare il passo di Mt 16,18, a sostegno della sua rivendicazione. Così aveva fatto Damaso, così fa Leone I Magno (440-461), la prima grande figura di vescovo monarchico , il primo vescovo di Roma a fregiarsi del titolo “pontifex maximus”, pur senza mai trovare il consenso unanime da parte degli altri vescovi. Ai tempi di Leone Magno, cinque sedi vescovili (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme e Roma) godono di un particolare prestigio, anche se si tratta di “una questione più di autorità morale che di potere amministrativo” (DUFFY 2001: 61). Roma è, sicuramente, la chiesa più autorevole di un Occidente in netta fase di decadenza, ed è ciò che fornisce le condizioni favorevoli per un parziale attecchimento, in questa parte di mondo, della teoria del primato petrino, che rimane inconcepibile in Oriente. Tutti i vescovi rimangono, comunque, sottoposti all’imperatore, compreso il vescovo di Roma, anche se la lontananza da Costantinopoli e le invasioni barbariche, lo pongono in una condizione di maggiore autonomia nei confronti dell’imperatore rispetto a quella di altri vescovi. Odoacre si limita ad avocare a sé il diritto di ratifica dell’elezione del papa, che continua a svolgersi secondo le consuete modalità, e cioè per elezione ad opera del Senato, che agisce in rappresentanza del popolo di Roma.
Se ora confrontiamo la chiesa del V secolo col movimento cristiano dei primi settant’anni, non possiamo non coglierne l’abissale differenza. “La Chiesa – osserverà Nietzsche – è esattamente ciò contro cui Cristo predicò, e contro cui insegnò a combattere ai suoi discepoli” (1994: 99). Ed è proprio questo allontanamento da Cristo che – come dirà Nietzsche –, indurrà i cristiani ad elaborare teorie teologiche di ripiego, come quella della “giustificazione mediante la fede”, che, in pratica, serviranno a coprire il fatto evidente che i cristiani non vogliono, o non riescono, a fare ciò che è loro prescritto dalle Sacre Scritture.

2.22.2. Dal Paganesimo al Cristianesimo
Dal punto di vista culturale, l’evento di maggior rilievo che si registra sotto l’impero di Roma è il tramonto del paganesimo (ossia di quella cultura che si era formata nell’antica Grecia e che poi era stata diffusa nel mondo dalle armi macedoni e infine fatta propria da Roma) e l’avvento del cristianesimo. In un primo momento, la nuova religione riesce a far presa prevalentemente sugli strati più umili della popolazione, soprattutto grazie al rapporto estremamente favorevole tra ciò che promette (giustizia e immortalità) e ciò che chiede in cambio (accettazione acritica di alcuni dogmi, ubbidienza cieca alle autorità ecclesiastiche, partecipazione a semplici riti, disposizione alla solidarietà). Inizialmente, gli imperatori ignorano la nuova religione o la osteggiano, mentre i dotti la denigrano. Tra i più lucidi critici della dottrina cristiana vanno annoverati Celso (II sec.) e Porfirio (III sec.), entrambi esponenti della cultura ellenistico-romana, all’epoca dominante presso i pagani colti. Lo scontro si rivela insanabile, tanto profonde sono le differenze che separano le due culture. Vediamone alcune:
• Il cristianesimo esige “fede cieca, condannando il dubbio che i greci consideravano come sorgente di ogni filosofia” (NESTLE 1973: 487).
• I cristiani credono al di fuori di ogni ragione, mentre i Greci vogliono tutto vagliare proprio alla luce della fredda ragione.
• “Per i greci il mondo è eterno, non meno della divinità che in esso opera. Esso dunque non ha principio, né fine. Il cristiano invece parla di una creazione del mondo e di una fine del mondo” (NESTLE 1973: 499).
• “Alla fede dei cristiani in una rivelazione soprannaturale l’uomo antico contrappone la naturale conoscenza del mondo, resa possibile dal proprio spirito affine a quello divino” (NESTLE 1973: 514).
• “Il cristianesimo ha spostato il centro di gravità dell’esistenza da questo mondo a un mondo nuovo, sopraterreno, mentre l’uomo antico ha le sue radici nell’aldiquà” (NESTLE 1973: 515).
È stato notato che le osservazioni dei pensatori pagani sono tanto pertinenti da risultare ancora “largamente condivise dal pensiero moderno” (NESTLE 1973: 515) e che la nuova religione è palesemente inferiore culturalmente nei confronti della cultura ellenistica. “Confrontando gli scrittori avversi al cristianesimo con gli apologeti cristiani –scrive Nestle–, si acquista la certezza che la superiorità spirituale era dal lato dell’ellenismo. Nonostante questo, ha vinto il cristianesimo” (NESTLE 1973: 517). Perché? Dicevamo delle masse. La cultura ellenistica, insistendo sull’uso della ragione, sull’immortalità legata alle opere, si rivela più adatta ad una ristretta èlite culturale, particolarmente dotata e desiderosa di impegnarsi in imprese memorabili, e non può esercitare alcuna attrazione sul popolo. La gente comune preferisce “assicurarsi l’immortalità per vie più comode” (NESTLE 1973: 519) e, certamente, aderire ad una dottrina per fede è molto più semplice che assimilarla attraverso uno studio filosofico, così come assicurarsi la vita eterna attraverso semplici gesti, alla portata di tutti, risulta di gran lunga preferibile al fatto di doversi cimentare nell’improbabile tentativo di affidare le speranze di immortalità alle proprie opere e al ricordo di sé.
Inoltre, in un periodo di crescente impoverimento delle popolazioni e di persistente disagio della gente di fronte alle nefandezze della politica e della guerra, l’elevato contenuto etico del messaggio cristiano finisce per conquistare un certo numero di intellettuali, che traducono quel messaggio nelle categorie del linguaggio filosofico corrente e, così facendo, riescono ad elaborare una “filosofia” cristiana, da contrapporre alla tradizionale filosofia pagana, dotando la nuova religione di una solida base ideologica.
Se ora guardiamo la nuova religione con gli occhi dell’imperatore, notiamo che essa presenta un duplice ordine di aspetti: negativi gli uni, positivi gli altri. I principali aspetti negativi consistono nel particolare atteggiamento dei Cristiani, che rifiutano di prestare il culto all’imperatore e negano taluni principî consolidati dal tempo, come la legge del più forte, il diritto di uccidere e lo sfruttamento degli schiavi. Contro questi principî i Cristiani predicano l’uguaglianza e la fratellanza di tutti gli uomini, il pacifismo e la non-violenza, e si oppongono alla guerra e alla necessità di combattere e di uccidere, nemmeno per difendersi dalle orde dei Barbari, che premono ai confini e penetrano fino al cuore dell’Impero, seminando terrore e morte. Tutto ciò è visto come un pericolo per lo Stato e induce gli imperatori a considerare il cristianesimo una dottrina pericolosa, da estirpare.
Tra gli aspetti positivi dobbiamo ricordare l’etica dell’amore, della solidarietà e del perdono, che esercita un irresistibile fascino, soprattutto sulle masse e che, messa in pratica, consente alle prime comunità cristiane di lenire gli effetti nefasti dell’indigenza e di favorire la pace sociale. In un periodo di crisi, qual è quello in cui versa Roma nel IV-V secolo, questi aspetti positivi finiscono per accrescere il loro peso, tanto da indurre l’imperatore pagano a far propria la nuova fede.
Anche la fede nell’immortalità dell’anima e nella giustizia divina giocano un ruolo non secondario a favore della nuova religione, che promette la riparazione futura di ogni ingiustizia fra gli uomini. E chi, nella Roma a partire dal terzo secolo in poi, può sentirsi al riparo di ingiustizie? Non solo i plebei si sentono vittime di ingiustizie di ogni tipo, ma anche i patrizi hanno di che lamentarsi. Anzi, dopo lo stop all’espansionismo, sono soprattutto i ricchi a rischiare di rimetterci, mentre i poveri hanno poco da perdere, ma nemmeno ragioni per combattere. I ricchi trovano ingiusto che i loro latifondi producano sempre meno, a causa dell’incuria e dell’indolenza dei contadini e degli schiavi, che i loro beni e le loro stesse persone siano sempre di più minacciate da una crescente e incontenibile criminalità, che i plebei li ritengano responsabili del malessere sociale, che i Barbari diventino sempre più tracotanti e irrispettosi nei loro confronti, distruggano le loro case, devastino le loro campagne e si approprino dei loro beni. Perfino gli imperatori non si sentono al sicuro, e hanno ragione: molti di essi muoiono di morte violenta, sul campo di battaglia o vittime di intrighi e tradimenti. Il bisogno di una maggiore giustizia è avvertito da tutti e trova nel cristianesimo una valida risposta. Non dobbiamo sorprenderci perciò se anche i patrizi subiscono il fascino della nuova religione.
Per tutti, le comunità cristiane costituiscono altrettanti modelli edificanti in una società sentita come profondamente ingiusta e degradata. Agli occhi dei pagani ciò sta a testimoniare la superiorità del dio dei cristiani e quindi l’opportunità di riconoscerlo e farselo amico mentre, da parte loro, i Cristiani vedono nella crisi dell’impero la giusta punizione di Dio per coloro che si affidano alla logica di questo mondo. Proprio in virtù di questa duplice faccia, si può comprendere il contrastante atteggiamento degli imperatori del IV secolo nei confronti della nuova religione. Alcuni, come Diocleziano e Giuliano, la considerano un fenomeno sociale negativo e la combattono, altri, come Costantino e Teodosio, la sostengono. Il primo, con l’Editto di Milano (313), riconosce la libertà di professare qualsiasi religione, ponendo fine così alla persecuzione dei cristiani. Il secondo, con l’Editto di Tessalonica (380), proclama il cristianesimo religione ufficiale dello Stato. E non possiamo biasimarlo: ai suoi tempi, la Chiesa cristiana è la sola istituzione valida dell’Impero d’Occidente.
Già prima di Costantino il potere dell’imperatore doveva essere mediato attraverso i suoi rappresentanti nelle province, senza la quale esso sarebbe risultato astratto e di scarsa efficacia, specie nelle regioni più lontane. Costantino è il primo a cercare la collaborazione dei vescovi. Con Costantino cambia lo status sociale dei vescovi, i quali diventano “eminenti personalità, pari ai più ricchi senatori della città” (DUFFY 2001: 56). Anche l’imperatore adesso ha bisogno del vescovo e, di fatto, ricerca il suo appoggio per ottenere la pace sociale e il sostegno delle classi più umili e, più le cose vanno male, più cadono in discredito le istituzioni tradizionali dello Stato, ormai ritenute evidentemente incapaci di far fronte alle mutate condizioni socio-politiche e più acquista rilevanza la diocesi. È così che i vescovi, prima si affiancano alle classi dirigenti tradizionali e poi le soppiantano, divenendo i nuovi interlocutori privilegiati dell’imperatore e i principali responsabili della difesa della legge e dell’ordine sociale (BROWN 1995: 219).

2.21. La prima metà del V secolo

Teodosio è l’ultimo imperatore che guida personalmente le legioni e la cui autorità è riconosciuta in tutto l’impero. Alla sua morte l’impero va ai due figli: Arcadio (395-408) regna in Oriente, Onorio (395-423) in Occidente. Entrambi rivelano una personalità debole e governano senza onore e senza lode.
Intanto, nella steppa asiatica, agli inizi del IV sec., gli Unni sono diventati così numerosi che le loro terre non sono sufficienti a soddisfare i loro bisogni, e ciò genera fermento. Le tribù si compattano e manifestano aggressività reciproca. Alcune tribù si uniscono al comando di un condottiero e abbandonano le loro terre in direzione di Cina, India e Impero romano, travolgendo e razziando tutto ciò che trovano lungo il loro cammino. Svevi, Vandali, Alani e Burgundi vengono sottomessi, mentre i Visigoti, nel tentativo di sfuggire a queste terribili orde, sciamano ad Occidente.
Sotto Onorio si mette in luce un generale barbaro, Silicone, che riesce ad arginare le avanzate di Alarico, re dei visigoti, ma, dopo il suo assassinio (408), Alarico entra a Roma e la saccheggia (410). Questo evento, che accade per la prima volta, dopo otto secoli, viene accolto con grande commozione e stupore, e fa da preludio alla definita caduta dell’Impero. Roma non è più quella di una volta e il suo declino è evidente. Negli ultimi anni del regno di Onorio, Goti, Burgundi e Franchi ottengono dominî permanenti in Gallia. Lo stesso avviene per gli Svevi in Spagna, per i Vandali in Africa e gli Ostrogoti in Pannonia: sono i primi regni barbarici indipendenti. Molte famiglie romane devono abbandonare le loro terre, per far posto ai nuovi arrivati, che, quasi tutti, finiscono per abbracciare il cristianesimo. Ormai Roma non è più una realtà distinta dai barbari, i quali, pur essendo lontani per tradizioni e cultura, risultano accomunati dalla stessa fede in Cristo.
Dopo Onorio, in Occidente si susseguono ben quindici augusti in mezzo secolo, segno evidente di crisi profonda. In effetti, Roma ha imboccato il viale del declino e si avvia mestamente alla fine. Qualche sprazzo di luce si nota sotto il regno di Valentiniano III (425-455), che, grazie alle imprese di Ezio, un valoroso generale, riesce a tenere a bada franchi, vandali e visigoti. La gloria e la popolarità di Ezio è tale da far montare la gelosia dell’imperatore, che lo fa assassinare (454). Valentiniano muore, assassinato a sua volta, un anno dopo, e con lui si estingue una dinastia che è durata novant’anni. Ormai l’impero ha poco da esprimere e si trascina penosamente fino al giorno in cui l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, viene deposto dal barbaro Odoacre (476), “capo di orde senza patria, un misto di rugi, eruli, sciri e turcilingi” (RENDINA 1996: 94), il quale assume i poteri che prima erano dell’imperatore. Il Senato continua a sussistere e amministra la città.
Dopo la caduta dell’impero, la chiesa rimane l’unica istituzione valida sia sotto il profilo organizzativo, che politico ed economico. L’Oriente, invece, rimane saldamente in mano all’imperatore. A Costantinopoli regnano in successione Teodosio II (408-450), Marciano (450-457) e Leone I (457-474), che, in tre, coprono un regno di oltre sessant’anni, a testimonianza della stabilità politica che regna in Oriente. Non più sede imperiale, Roma si va svuotando di persone e assume un aspetto alquanto dimesso. Ormai è solo una capitale simbolico-affettiva, priva di un reale peso politico. Anche le città di Alessandria e Antiochia, un tempo sedi prestigiose di patriarcati, sono in fase di declino. Adesso è Costantinopoli la capitale effettiva dell’impero, la nuova Roma.

2.21.1. Il cristianesimo nella prima metà del V secolo
In Occidente, la situazione è, sotto ogni aspetto, fallimentare, ma non per il vescovo di Roma, che porta avanti la sua politica di grandezza, in contrasto con la desolante crisi del mondo che lo circonda. Proprio nel periodo in cui si va consumando la lenta agonia dell’impero, infatti, la chiesa cristiana è in netta ascesa e ha motivo di essere fiera del cammino fatto in poco più di un secolo dopo Costantino. In quel periodo, essa è passata da una religione secondaria, limitata alle classi più umili, a religione di Stato e si estende a tutti i ceti sociali, imperatori compresi. È ben organizzata, intorno alla figura del vescovo, che è anche una personalità politica, possiede imponenti strutture ecclesiali e vasti terreni, che fa coltivare a contadini e coloni, e, soprattutto, è portatrice di un messaggio, che si adatta alle più svariate situazioni. Al povero, all’afflitto e all’emarginato offre parole di consolazione, infonde il coraggio necessario per tenere la testa alta e promette la beatitudine in un’altra vita. Al ricco offre la possibilità di avere salva l’anima, in cambio di generose offerte. All’uomo di potere offre la legittimazione del suo status per volere di Dio.
Innocenzo I (401-17) esercita il suo ufficio con un’autorità tale da renderlo agli occhi di molti “il primo papa”, ma il suo potere è ancora alquanto limitato. I vescovi, infatti, continuano ad essere eletti dal popolo dei fedeli e la loro nomina da parte del papa dev’essere ratificata da un funzionario imperiale, dopo aver verificato la validità dell’elezione stessa. Inoltre, non tutti sono disposti a chinare la testa dinanzi vescovo di Roma. Agostino, per esempio, nella sua lotta contro donatisti e pelagiani, non concede al papa il diritto di ultima parola. La situazione del primato petrino è ancora fluida.
Mentre si vanno rimpicciolendo le figure degli imperatori, si ergono le prime grandi figure di vescovi, come Leone I (440-461) a Roma, che, secondo alcuni, è il primo «vero papa». Leone I riesce ad allontanare dalla sua città Attila, ma non Genserico, è ciò basta a fare di lui un salvatore della patria. Sotto il suo pontificato si svolge a Calcedonia (451) un importante concilio ecumenico, che conferma il primato di Roma a Occidente, insieme ad un primato di Costantinopoli ad Oriente. Leone rifiuta di riconoscere questo canone e ribadisce i princìpi del primato del vescovo di Roma e della sacralità del potere, che domineranno durante tutto il corso del medioevo e caratterizzeranno il feudalesimo. La logica è semplice: il papa non è disposto a dividere il potere con nessuno; inoltre, ogni potere viene da Dio, perciò ogni autorità è sacra e sovrana. Di conseguenza, anche se un pubblico funzionario governa male, il cittadino non dovrà ribellarsi, ma piuttosto pregherà Iddio affinché lo illumini e lo induca ad un comportamento più saggio.
È evidente che l’imperatore difficilmente può chiedere di più: il paganesimo non gli offre una legittimazione altrettanto forte. Se si vogliono trovare delle ragioni, che possano aver indotto Costantino ad abbracciare la nuova religione, una è certamente questa. Unico Dio, unico Imperatore! A Costantino, che era un concentrato di ambizione, quella religione calzava a pennello. Ma, alla lunga, quella politica si rivela vantaggiosa solo per la chiesa, la quale, mentre l’impero agonizza e la plebe vive di stenti, manifesta una grande vitalità e continua a costruire sfarzose basiliche, impreziosite da raffinate opere d’arte. Il grido di San Gerolamo (347-420), “noi dobbiamo pensare alla croce e considerare la ricchezza nient’altro che fango”, si perde nel vuoto. La chiesa non ha nessun motivo di cambiare passo e direzione.
Se l’impero va in frantumi, il prestigio del papa cresce. Va bene così. Il vescovo d’Ippona, Agostino (354-430), che scrive La Città di Dio proprio in questo periodo, non sembra preoccupato, anzi coglie l’occasione per ribadire l’atteggiamento astensionista che aveva contraddistinto il cristianesimo delle origini. I cristiani, afferma Agostino, devono essere indifferenti al mondo politico e devono vedere in tutte le forme di governo altrettante opere umane necessariamente imperfette, che sono conseguenza del peccato originale. Essi perciò devono vivere su questa terra come pellegrini senza patria, in attesa che Dio edifichi la città ideale.
Non dissimile è la posizione di un altro illustre cristiano, Paolino di Nola (353-431), che, pur essendo membro di una famiglia aristocratica, diffida i ricchi dall’ammassare tesori su questa terra e li esorta a curarsi del futuro delle proprie anime e a rendersi degni di un regno di Dio, che immagina ancora imminente. “Il tempo è giunto; il Signore è ormai vicino; affrettatevi a prepararvi all’incontro del Re, finché ancora ve ne rimane il breve tempo” (Carme XXXI, 538-39). Il messaggio è chiaro: il cristiano deve allontanarsi dalla politica e dagli interessi materiali e recuperare l’etica della parusia e del regno di Dio, che ha smarrito. “Cristo, che si è fatto rifugio e rappresentante dei poveri, è motivo di vergogna per i ricchi, di gloria per i poveri” (Carme XXXI, 529-30).

2.20. L’inizio del medioevo

Abitualmente, l’inizio del medioevo viene fatto coincidere con la caduta dell’impero rimano, ossia nel 476. I dati storici, tuttavia, indicano una data antecedente. Questa data potrebbe essere il 392, anno in cui Teodosio decreta la fine ufficiale del paganesimo e dà inizio all’era cristiana. È questo il periodo in cui al vescovo di Roma viene riconosciuto l’appellativo di “papa”. In realtà, il medioevo è già cominciato sotto Costantino, con l’ingresso in politica dei cristiani.

2.19. Teodosio

Intanto, Valente subisce una terribile disfatta ad opera dei Visigoti e muore in battaglia (378) e, al suo posto, si insedia Teodosio (379-95), un eccellente generale. Tanto Graziano quanto Teodosio sono imperatori cristiani e lo dimostrano con la loro politica: il primo abbandona il titolo di pontifex maximus, il secondo proclama la fede basata sul credo di Nicea l’unica vera religione (380) e mette al bando ogni forma di culto pagano (392). In pratica, con questi provvedimenti, il cristianesimo diviene religione di Stato e il paganesimo tramonta definitivamente. Nel 383, Graziano viene assassinato e il suo trono usurpato da Magno Massimo (383-388), un generale di umili origini, che è acclamato augusto dalle milizie della Britannia. Egli convince molti capi barbari ad abbandonare Teodosio, costringendo questi a riconoscerlo: prima si deve occupare delle defezioni. L’operazione di polizia avviata da Teodosio è grandiosa e solo pochi capi barbari riescono a sfuggire ai controlli e a salvare la vita. Organizzati in bande, essi si danno al brigantaggio. Fra costoro c’è Alarico. Finalmente Teodosio è pronto per marciare contro Magno Massimo, che viene sconfitto (387) e ucciso dai suoi stessi soldati (388), così che Teodosio rimane unico padrone del campo.
Debole in materia di religione, Teodosio si lascia sovrastare dalla forte personalità di Ambrogio, figlio di un alto funzionario dello Stato, che, abbandonata la carriera del padre, alla quale è indirizzato, diviene vescovo di Milano (374-97), qualche anno prima che sieda sul trono un’altra forte tempra d’uomo, l’imperatore Teodosio. Nel confronto, ha la meglio Ambrogio, che riesce a servirsi dell’imperatore per raggiungere il suo principale obiettivo, che consiste nella soppressione di tutte le religioni non cristiane. Teodosio, invece, prevale come condottiero e come abile uomo politico. Egli accoglie entro i confini dell’impero intere tribù di visigoti, germani e unni, cui concede di vivere secondo le proprie leggi, a condizione che forniscano all’impero soldati e lavoratori agricoli. L’accresciuta spesa militare dev’essere compensata da un’adeguata pressione fiscale, che risulta molto gravosa per i cittadini, specie per le fasce più deboli, che non possono più far conto sui “difensori del popolo”, il cui ruolo è, di fatto, reso nullo.
Sotto Teodosio, viene compilato il Codice Teodosiano, un’opera in sedici libri, che viene pubblicata nel 428. È una raccolta di leggi emanate nell’ultimo secolo e, dunque, nel periodo in cui il cristianesimo è in forte ascesa e sta permeando la cultura sociale coi propri valori. Ci si aspetterebbe un diritto rivoluzionario, fondato sul rispetto e sull’eguaglianza delle persone, ma così, purtroppo, non è: rimane la vecchia distinzione fra cittadini di serie A e di serie B e la disuguaglianza di fronte alla legge. È evidente che il cristianesimo non ha cambiato il sistema politico, la struttura del potere e l’impostazione duale della società, ma anzi li ha, per così dire, consacrati e cristallizzati.

2.19.1. I barbari sotto Teodosio
Dopo la disfatta del 378, i romani scoprono di essere meno forti di quello che pensavano e di non poter fare a meno della forza bruta dei barbari. A Teodosio altro non resta che scendere a patti coi Goti, che accoglie nell’impero e dei quali si serve come di una risorsa indispensabile per la propria politica. Da questo momento, non è più l’imperatore a pilotare gli eventi: sono piuttosto gli eventi a condizionare le sue scelte. Ai cittadini romani, che non hanno più voglia di arruolarsi nell’esercito, viene concessa la facoltà di commutare il servizio militare col pagamento di una tassa: al loro posto si arruolano i barbari, che sono desiderosi di integrarsi. L’arruolamento nell’esercito offre ai barbari non solo l’opportunità di diventare cittadini romani, ma anche quella di far carriera fino ai massimi posti di comando.
Da questo momento, la forza militare dell’impero d’Occidente è rappresentata principalmente, e in misura crescente, dai barbari e, dato che l’impero s’identifica innanzitutto con l’esercito, ne consegue che esso è ormai di fatto nelle mani dei barbari, nei confronti dei quali i civili romani si trovano in stato d’inferiorità, almeno sul piano della forza. Nel suo insieme, ora l’impero d’Occidente è una società multietnica, dove romani e barbari godono dello stato giuridico. I barbari dunque non sono più né stranieri, né inferiori, ma cittadino come gli altri, cittadini che parlano la stessa lingua e professano la stessa religione e la cui inferiorità sul piano culturale è ampiamente compensata dalla loro superiorità sul piano militare. L’imperatore deve necessariamente essere indulgente nei loro confronti, perché la sua autorità dipende dalla forza delle loro armi, mentre i civili possono essere impunemente discriminati. Ai romani rimane la gestione dell’amministrazione dello Stato, dato che i barbari non si sentono all’altezza del compito. In realtà la situazione non è così lineare e semplice. Molti capi barbari, infatti, rifiutano di obbedire alle autorità costituite e si comportano come briganti, oppure si vendono al migliore offerente. Nei loro confronti l’imperatore è per lo più impotente.

2.19.2. Il vescovo di Roma nella seconda metà del IV secolo
Nella seconda metà del IV secolo si accentuano le lotte intestine per la carica di vescovo, come quella che vede di fronte i diaconi Ursino e Damaso per la carica di vescovo di Roma. Ha la meglio Damaso (366-84), che riapre la questione del primato petrino. I concili di Roma (369) e di Antiochia (378) lo assecondano e stabiliscono che un vescovo può essere considerato legittimo solo dopo che la sua nomina è stata ratificata dal vescovo di Roma. I fatti però dimostrano che siamo ancora lontani dal “primato”. Al concilio di Costantinopoli (381), infatti, Damaso (366-384) non viene neppure invitato. Un altro concilio, tenuto a Roma nel 386, ribadisce il primato del vescovo di Roma sugli altri vescovi e Siricio (384-99), può assumere per la prima volta il titolo di “papa”, senza che però a quel titolo corrisponda un adeguato potere. È un significativo passo avanti in direzione del papato, ma solo in linea di principio e insufficiente a risolvere i problemi dottrinali che continuano ad affliggere la chiesa.
Continuano a circolare, infatti, diverse interpretazioni della stessa dottrina, che appaiono incompatibili fra loro e, soprattutto, contrastano con la convinzione che esiste un’unica verità. Se una sola dottrina è vera, le altre sono eretiche. Ma quali? Non essendoci ancora una figura papale dotata di potere sovrano, a fare da arbitro continua ad essere l’imperatore, che però, essendo poco esperto in materia, si affida ai propri consulenti. In pratica, il vescovo più vicino all’imperatore è colui ha rappresenta la vera chiesa. È in quest’ottica che si spiegano le prime condanne all’interno del cristianesimo, come quella di Priscilliano, che viene giustiziato, insieme ad altri sei compagni, per eresia (385). Il vero capo della chiesa continua ad essere l’imperatore, il quale esercita il diritto di ratifica del papa, dopo che questi è stato eletto dal popolo di Roma, che è rappresentato dal Senato.

2.18. I barbari sotto Valentiniano

Il successore di Giuliano, Gioviano (363-364), si affretta a ripudiare il paganesimo e riprende la vecchia politica filocristiana, e lo stesso farà Valentiniano I (364-375), un personaggio di nobile stirpe, che ha fatto una regolare carriera nell’esercito, il quale riesce a fondare una dinastia duratura. Dopo aver affidato l’Oriente al fratello Valente (364-378), Valentiniano avvia una politica di riforme, che è tesa soprattutto a potenziare l’esercito ed elevare le condizioni economiche dei soldati, ma a prezzo di un inasprimento fiscale. Per aiutare le classi più deboli, crea dei nuovi funzionari, chiamati “difensori del popolo”. Nel complesso, Valentiniano si rivela un saggio amministratore e un eccellente soldato. Alla sua morte, gli succedono i figli, Graziano (375-383) e Valentiniano II (375-392), che, al momento ha solo quattro anni.
A partire da Valentiniano, gli imperatori non riescono più a fare a meno dei barbari, il cui reclutamento entra a far parte essenziale della loro politica: un buon imperatore deve saper procurare reclute e manodopera presso i barbari, i quali costituiscono ora una risorsa irrinunciabile e sono chiamati a colmare la mancata risposta dei cittadini alla domanda di servizio militare e di manodopera. Intanto, terrorizzati dalla crudeltà degli Unni, i Goti premono sulla riva settentrionale del Danubio e chiedono di essere accolti. Questa volta Valente ricorre alla forza, ma gli va male e deve subire un’umiliante disfatta, che segna un momento di svolta nei rapporti fra imperatori e barbari: d’ora in poi, gli imperatori non potranno più trattare coi barbari da una scontata posizione di forza, ma dovranno scendere a patti con essi. Da questo momento l’integrazione dei barbari diventa un asse portante non solo della politica imperiale, ma anche di quella ecclesiale, che punta sulla cristianizzazione dei barbari.

2.17. I barbari sotto la dinastia di Costantino

Morto Costanzo, il potere passa a Giuliano (361-3), un nipote di Costanzo Cloro, che è uno dei superstiti della strage dei parenti di Costantino il Grande. Viene acclamato imperatore nel 361. È un uomo di cultura, che disdegna il lusso e ostenta una vita morigerata e austera. Rinuncia all’harem e si veste e si nutre in modo parco e frugale. Somiglia di più ad un asceta che ad un imperatore. Convinto di dover rinverdire i fasti dell’impero e di recuperare il paganesimo, Giuliano caccia dal palazzo la moltitudine dei parassiti, che dilapidano il denaro pubblico, restituisce autorità al senato, migliora le condizioni di vita dei soldati e attribuisce il comando ai più meritevoli, riduce il peso fiscale per ridare respiro all’agricoltura, sostiene le classi più deboli e si prende cura dei poveri, migliora e rende più sicure le vie di comunicazione e le attività commerciali. Come condottiero, vuole farsi emulo di Alessandro Magno e si mostra deciso e impavido, e non disdegna di cavalcare alla testa delle truppe, là dove massimo è il pericolo. Sul versante religioso, concede ai pagani libertà di culto e sostegni economici, mentre priva i cristiani dei privilegi concessi loro da Costantino e li fa oggetto di una campagna denigratoria.
Nel complesso, sia come uomo politico che come capo militare, Giuliano mostra buone qualità, che però non riesce ad esprimere compiutamente, perché colpito a morte da una lancia nel corso di una scaramuccia contro la cavalleria persiana, dopo solo due anni di regno. Gira la voce che a colpirlo sia stato uno dei suoi soldati cristiani. Tale supposizione è avvalorata dal fatto che nessun cavaliere persiano si fa avanti per ricevere il premio promesso a chi avesse ucciso il giovane imperatore romano. Per quanto nobile, la politica di Giuliano è da considerare fuori dal tempo e del tutto improbabile, sia dal punto di vista militare che da quello religioso: ormai, Roma non ha più la forza di espandersi e, almeno a livello popolare, la dottrina cristiana risponde meglio ai bisogni della gente. Così, dopo la morte di Giuliano, i cristiani elevano un coro di critiche sul suo conto e si danno un gran da fare per infangarne la memoria. Ormai, la storia pende dalla loro parte e il vescovo Ulfila riesce nella straordinaria impresa di convertire i Goti al cristianesimo, sia pure nella sua versione ariana, che al momento è la più diffusa.
La politica di Costantino nei confronti dei barbari non si discosta da quella dei suoi predecessori, ma, dopo la sua morte, il flusso immigratorio comincia a sfuggire di mano agli imperatori, che, almeno in parte, devono subirlo: “ora l’accoglienza o la deportazione di immigrati appaiono più raramente il frutto di decisioni unilaterali assunte dagli imperatori, e di campagne offensive deliberatamente pianificate allo scopo, e più spesso come espedienti di una politica di compromesso volta a contenere i barbari che premono sulle frontiere” (BARBERO 2007: 102). Così, Giuliano consente ai Franchi Salii, che sono incalzati dai Sassoni, di insediarsi nella spopolata Gallia, in cambio della loro rinuncia ad attuare razzie in territorio romano. In fondo, agli occhi dei romani, si tratta ancora della solita politica, anche se adesso Giuliano la subisce.

2.16. I cristiani ai tempi di Costanzo

Costantino lascia l’impero ai suoi tre figli, Costantino II (337-340), Costante (337-350) e Costanzo (337-61), che sono tutti stati educati cristianamente e sono di fede cristiana. Mentre partecipano ai solenni funerali di Stato del loro illustre genitore, essi stanno già complottando l’eliminazione di tutti i possibili pretendenti al trono, in particolare i figli dei fratellastri del padre, compresi i loro amici, sostenitori e simpatizzanti. Solo pochi riusciranno a sottrarsi al massacro. Ben presto però cominciano gli attriti anche fra i tre fratelli, il principale dei quali riguarda la delimitazione dei rispettivi confini. Costantino II riceve la Gallia, la Spagna e la Britannia, Costante l’Italia e l’Africa, Costanzo l’Oriente. Essendo il più anziano fra i tre, Costantino II si atteggia a primus inter pares, ma la cosa non è gradita a Costante e alla fine Costantino II viene ucciso dai soldati del fratello (340).
Intanto, Costante ha un atteggiamento così altero e sprezzante nei confronti dei suoi legionari da indurli ad ammutinarsi e ad acclamare imperatore Magnenzio (350-353), un ex schiavo, e poi viene messo a morte da un seguace del ribelle. Costanzo affronta e sconfigge Magnenzio, inducendolo al suicidio (353). Come già ai tempi di Costantino, anche sotto Costanzo le legioni seguono il vessillo della croce e, dei numerosi soldati barbari arruolati nelle legioni, molti abbracciano il cristianesimo.
La situazione per i cristiani non cambia sotto Costanzo: anche in questo caso è l’imperatore che prende l’iniziativa e interviene in tutte le principali controversie di natura religiosa. Al momento, la questione che divide maggiormente i teologi è quella riguardante la natura di Cristo. Nella speranza di dirimerla, Costanzo, che personalmente è di fede ariana, convoca un concilio a Sardica (342), ma l’assemblea dei vescovi si spacca e le due parti si lanciano reciproci anatemi: è un vero fallimento. Alla fine prevale la posizione dell’imperatore, che prevede la rivalutazione di Ario, mentre Atanasio deve riparare nel deserto. Ciò non basta a placare la polemica, che anzi si estende, comprendendo una terza tesi: la natura di Cristo non è né uguale, né diversa, ma simile. Alla fine, Costanzo si convince che “simile” sia l’unica formula in grado di preservare l’unità della chiesa e fa approvare questa soluzione da due concili (359). La controversia però continuerà anche dopo la morte di Costanzo. Nonostante tutto, il concilio di Sardica è destinato ad avere un rilevante peso storico, perché è l’unico in cui si riconosce esplicitamente il primato di Roma su tutte le altre chiese e al quale più volte i papi si richiameranno per legittimare la propria autorità. C’è da dire però che, né il concilio di Costantinopoli (381) e nemmeno quello di Calcedonia (451), che pure si occuperanno della questione, saranno altrettanto espliciti sul primato di Pietro.
Ai tempi di Costanzo si contano 1800 comunità ecclesiali, di varia dimensione e importanza, disseminate in tutto l’impero, ciascuna con un proprio vescovo e con uno stuolo di sacerdoti semplici. Il vescovo viene eletto in modo democratico, non solo dal clero inferiore e dagli aristocratici della città, ma anche da tutta la popolazione locale, “che nel giorno stabilito accorreva in folle dalle più lontane parti della diocesi” (GIBBON 1967: 669). L’imperatore non si intromette. Il clero è esentato “da ogni servizio pubblico o privato, da tutti gli uffici municipali, e da tutti quei tributi e contributi personali, che con peso intollerabile opprimevano i loro concittadini” (GIBBON 1967: 671). Per di più, alle chiese è data facoltà di ereditare i beni dei fedeli. Al vescovo poi è concesso l’esclusivo privilegio di non essere giudicato che dai suoi pari, il che gli consente di godere di un’ampia immunità di fatto. Egli è l’autorità morale indiscussa, colui che definisce il bene e il male della comunità. Il suo potere è enorme e ciò spiega perché l’episcopato è una carica molto ambita.

2.15. Il Monachesimo e il problema dei ricchi

In risposta a queste presunte degenerazioni dello spirito evangelico, molti cristiani si ritirano dal mondo e vivono in condizioni di povertà, come l’anacoreta Antonio, mentre Pacomio (290-345) fonda la prima confraternita di asceti e san Basilio (330-79) elabora una prima forma di monachesimo.
Membro di una famiglia facoltosa, a causa di una crisi spirituale, Basilio di Cesarea abbandona i propri beni e abbraccia una vita di tipo ascetico (357). Qualche anno dopo verrà ordinato sacerdote (362) e infine eletto vescovo (370). Ebbene, Basilio denuncia la perdita dello spirito solidaristico e dell’armonia dei tempi passati delle comunità cristiane: “la carità si è raffreddata sotto tutti gli aspetti; l’accordo fraterno è sparito ed è perfino ignorata la parola concordia (…); non c’è più sentimento cristiano” (Lo Spirito Santo, 78). La crisi morale investe anche, e soprattutto, i livelli apicali, in particolare i vescovi, che sono diventati personaggi politici, ricchi e potenti. Lo stato di crisi in cui versa la chiesa intorno alla metà del IV secolo è dovuto, secondo Basilio, non solo alle divisioni dottrinali interne e alle eresie incontrollabili, ma anche alla feroce competizione per il titolo di vescovo: “lo scontro per le sedi episcopali è indescrivibile” (Lo Spirito Santo, 77). Solo a titolo di esempio, possiamo ricordare il caso di Damaso e Ursino, due candidati vescovi a Roma, i quali si affrontano dando luogo ad una lotta cruenta e spietata, che conta centinaia di vittime e offrendo uno spettacolo pietoso e nettamente contrastante con la dottrina di Cristo, che però non sorprende lo storico pagano Ammiano Marcellino, secondo il quale la posta in palio giustifica il ricorso alla lotta condotta con ogni mezzo. I vescovi, infatti, “hanno un futuro assicurato, sono arricchiti dalle offerte delle matrone, viaggiano seduti nelle carrozze, splendidamente abbigliati, offrono banchetti così sontuosi da sorpassare le tavole dei re” (DUFFY 2001: 57).
L’attaccamento alla proprietà privata condiziona sempre più il comportamento dei cristiani, le loro scelte e la loro fede. Eppure, osserva Basilio, la natura ha dato agli uomini tutto in comune! “Se ciascuno si prendesse quanto basta al suo bisogno, lasciando il superfluo all’indigente, nessuno sarebbe ricco e nessuno povero” (Omelia sul ricco insensato, 7). La posizione di Basilio sulla proprietà privata, che è la posizione di tutti quelli che abbracciano la vita monacale, è scarsamente condivisa dagli altri cristiani e, men che meno, dai vescovi che, dopo Costantino, sono entrati nel novero degli uomini ricchi. Prevale comunque, in seno al cristianesimo, almeno come ideale a cui tendere, la concezione, secondo la quale la ricchezza non è un male di per sé. Il giudizio morale non va espresso sul denaro, bensì sull’uso che se ne fa. È male usare il denaro per asservire i propri fratelli, è bene servirsi di esso per alleviare le sofferenze degli indigenti. Questa è la posizione dominante fra i cristiani del IV secolo ed è ben riassunta da Ilario (315-367), vescovo di Poitiers. “Non è un crimine possedere, ma bisogna osservare una misura nel possedere. In che modo infatti si potrà dividere, mettere in comune, se non viene lasciata nessuna risorsa da dividere e da mettere in comune? Il crimine quindi non consiste nel possedere in se stesso ma nel possedere in modo da nuocere” (Commento a Matteo 19,9).

2.14. Il cristianesimo ai tempi di Costantino

A cavallo fra III e IV secolo, il cristianesimo è ormai diffuso in tutto l’impero e costituisce una potenza sociale ed economica di tutto rispetto, che non può essere ignorata. Nei suoi confronti, i pagani sono divisi: alcuni l’avversano e vorrebbero estirparlo, come si fa con un tumore, altri sono favorevoli ad una sua integrazione. Sotto Diocleziano prevale la prima linea e si apre un duro periodo di persecuzione, il cui obiettivo è quello di estirpare il tumore. I cristiani non potrebbero resistere a lungo, ma, per loro fortuna, riaffiora l’anima pagana favorevole alla pacifica convivenza con Galerio, che riconosce la libertà di culto (311). Il pericolo è passato, ma, a Cartagine, avviene un fatto increscioso: i seguaci di Donato accusano il vescovo Ceciliano di aver tradito la fede durante la persecuzione e lo inducono a dimettersi. Della questione si occupa direttamente Costantino, che, da qui in avanti, assume, di fatto, il ruolo di super-vescovo (non per niente viene chiamato “Isapostolo”, ossia pari ad un apostolo), mentre il vescovo di Roma, Silvestro I (314-35), continua a rimanere una figura di secondo piano.
Da questo momento ai cristiani è data la facoltà di costruire le loro chiese, e i lavori cominciano. In questo momento, la chiesa più importante della Palestina è quella di Cesarea, mentre in vescovi di Aelia cominciano a rivendicare il primato della propria città, essendo il luogo dove Cristo ha predicato ed è stato crocefisso e sepolto. Sulla questione si pronuncerà il concilio di Nicea, il quale, pur riconoscendo ad Aelia una posizione onorevole, conferma il suo ruolo subalterno nei confronti di Cesarea. Ciò non toglie che Aelia, soprattutto dopo che gli scavi hanno portato alla luce il luogo dove Gesù è stato crocefisso e sepolto, diviene un’importante meta di pellegrinaggio e acquista notevole rilevanza sotto il profilo della pietà religiosa, anche se, per Eusebio, vescovo di Cesarea, essa rimane una città irrimediabilmente contaminata dall’ebraismo deicida.
Uno dei problemi che assilla l’imperatore sotto il versante religioso è questo: è vero che il modello cristiano è superiore a quello pagano, ma è anche vero che le diverse chiese sono divise su questioni dottrinali e i loro contrasti sono all’origine di tafferugli e turbolenze, che non giovano all’impero. Ebbene, Costantino vuole ricomporre le controversie e realizzare l’unità di tutte le chiese cristiane, convinto che quella potente organizzazione, che non si è piegata di fronte alle persecuzioni, può risultare vantaggiosa ai fini politici, se opportunamente valorizzata. Ora, c’è soprattutto una questione che continua a dividere le comunità cristiane e sulla quale non sembra esserci modo alcuno di giungere ad una risposta condivisa. Si tratta della natura di Cristo, che vede in campo due tesi contrapposte: la prima, stabilisce che il Figlio non ha la stessa natura del Padre, essendo una sua creatura, la seconda, afferma che entrambi hanno la stessa natura. Ciascuna delle due dottrine ha un proprio alfiere: un prete alessandrino, Ario, la prima, il vescovo di Alessandria, Atanasio, la seconda. Ario non nega la divinità del Cristo, ma afferma che, essendo creato dal Padre, il Figlio non è né coevo, né eguale al Padre stesso. La sua è una posizione di buon senso, che nulla toglie alla sostanza del cristianesimo, né come religione, né come dottrina etica; eppure, su di essa si innesca una controversia, che rischia di lacerare tutto l’impero.
Volendo risolvere l’annosa questione, Costantino convoca a Nicea un concilio generale dei vescovi (325). La partecipazione è massiccia, ma le discussioni si placano solo quando l’imperatore impone la tesi dell’identica natura. I vescovi che non vogliono accettarla vengono esiliati. Così la questione è risolta, la calma regna fra le chiese e l’imperatore è soddisfatto. Più tardi qualcuno aggiungerà agli atti del concilio un documento, il Sesto canone, che comincia con le parole: “la chiesa romana ha sempre avuto il primato…”. Si tratta di un falso teso a dimostrare che il primato petrino è stato proclamato dal primo concilio, come dire: è esistito da sempre. Trattandosi di un falso, ne dobbiamo che questo “primato di Roma”, ai tempi di Costantino, semplicemente non esiste.
Quello convocato a Nicea dall’imperatore, allo scopo di ricondurre all’unità le dottrine controverse delle singole chiese cristiane, è il primo concilio ecumenico e costituisce un punto di svolta nella storia del cristianesimo. A partire da Costantino, la nuova religione è non solo tollerata dallo Stato, ma anche patrocinata dallo stesso imperatore, che ne diviene garante supremo. A lui è riconosciuto il diritto di convocare i vescovi in assemblea generale, di presiedere l’assemblea stessa e di pronunciare l’ultima parola, anche su questioni dottrinali. Da questo momento, il cristianesimo costituisce un’unica chiesa ed è organizzato gerarchicamente intorno alla figura dei vescovi e dell’imperatore, che ne è il vero e proprio capo supremo e la governa secondo le leggi dell’impero. La nuova chiesa, che possiamo definire cristiano-imperiale, ha ben poco in comune con il regno di Dio dei primi cristiani.
Costantino non è solo il supremo magistrato (legislatore) e il supremo comandante delle forze armate, ma è anche il capo incontestato della chiesa, come attestano i suoi titoli di Isapostolo (XIII apostolo), Pontefice Massimo e Vicario di Dio sulla terra (COGNASSO 1976: 257-8). Soprattutto importante è il titolo “tredicesimo apostolo”, che vuol dire: l’unico apostolo vivente, ossia l’effettivo capo della chiesa. In quanto capo della chiesa, è all’imperatore che spetta il compito di dirimere le controversie religiose, possibilmente, ma non necessariamente, dopo aver sentito il parere dei vescovi convocati da lui stesso in assemblea (CHIOVARO, BESSIÈRE 1996: 30). Per contro, il vescovo (qualsiasi vescovo, compreso quello di Roma) diventa un funzionario dell’imperatore e, come tale, è detentore di poteri politici. Per esempio, è concessa al cittadino la facoltà di impugnare il verdetto di un giudice ordinario facendo appello al tribunale di un vescovo (MARCONE 2000: 61).
Il cristianesimo è ormai divenuto un’istituzione dello Stato: apparentemente guadagna, divenendo un centro di ricchezza e potere, ma il prezzo che deve pagare è il rinnegamento di alcuni consolidati principî cristiani. Inoltre, i benefici che l’imperatore concede ai cristiani sono tali che sempre più numerosi sono coloro che si convertono alla nuova religione, non tanto per motivi di fede, quanto per semplice interesse, il che finisce per abbassare il livello morale delle comunità cristiane.
Ne consegue l’allontanamento dal modello sociale vagheggiato dai primi cristiani, i quali avevano immaginato un Regno improntato ad un sostanziale egalitarismo, dove tutti i suoi membri sono figli di Dio, dunque fratelli, e dipendono esclusivamente da una legge scritta non da autorità umane, ma da Dio stesso. Questo quadro si capovolge dopo la decisione dei cristiani di accettare l’apertura di Costantino ed entrare in politica. Dopo questa svolta, il modello ebraico-cristiano diventa quello della monarchia assoluta e, ancor più, dell’impero universale, e dominerà la scena politica lungo tutto il medioevo e oltre. Dietro il sovrano assoluto, sia egli il re o l’imperatore, c’è Dio, mentre la figura del cittadino responsabile cede il posto a quella di suddito. L’assolutezza del potere regale non è legata al re come uomo, ma al re che parla in nome di Dio e impone la sua volontà come se fosse quella di Dio. Ciò che fa il re è come se lo facesse Dio e nessuno ha il diritto di contestarlo. Per definizione la legge del re è giusta. Essa può essere modificata dallo stesso re o da un altro re, ma giammai dal basso, dal popolo. È la riproposizione di un vecchio modello, che è una sorta di autocrazia mascherata di teocrazia e che abbiamo visto operante presso gli antichi egizi e i mesopotamici e i cui esiti ci sono noti: esso può reggersi in piedi solo con la forza e grazie al sacrificio di molti a favore di pochi e, quando crolla, lascia dietro di sé una lunga stria di sangue.

2.13. I barbari ai tempi della Tetrarchia

Posto fine al periodo delle guerre civili, Diocleziano può ritornare alla vecchia politica già inaugurata con successo con Marco Aurelio, che prevede la regolazione del flusso immigratorio dei barbari, secondo gli interessi dell’imperatore. Popolazioni barbariche vengono deportate in massa soprattutto per ripopolare le regioni che, per un motivo o per l’altro, si sono spopolate, “mentre il reclutamento per l’esercito appare nelle fonti come un obiettivo ben presente, ma secondario” (BARBERO 2007: 73). Prevalentemente questi barbari vengono distribuiti nelle zone di confine, dove “possono essere vantaggiosamente insediati come coltivatori, garantendo all’impero un duplice profitto: gettito fiscale e coscrizione di reclute” (BARBERO 2007: 76). L’immigrazione dei barbari continua dunque sotto la Tetrarchia e si svolge sotto il pieno controllo degli imperatori, che, a loro discrezione, deportano forzatamente i barbari sconfitti in battaglia e accolgono quanti chiedono di entrare, allo scopo primario di ripopolare le province desertificate e rendere più sicuri i confini.

2.12. Da Diocleziano a Costantino

Alla morte di Numeriano, che avviene per assassinio, l’esercito d’oriente acclama augusto Diocleziano (284-305), un militare di carriera, di umili origini, ma di grande energia e dalle straordinarie doti di organizzatore. Carino muove guerra al rivale, forse annoverando fra i suoi ufficiali, un ambizioso personaggio di origini oscure, Costanzo, detto Cloro, cioè “pallido”. Le sorti della battaglia sembrano volgere a favore di Carino quando, l’assassino di questi da parte di uno dei propri ufficiali, regala la vittoria a Diocleziano, che si mostra clemente coi vinti. Costanzo è uno degli ufficiali graziati: egli deve lasciare, presso la corte di Diocleziano, il figlio Costantino, come garanzia della propria fedeltà. Dunque, Diocleziano chiude il cinquantennio di anarchia militare. È l’uomo nuovo, l’uomo della rinascita. E, in effetti, il suo comportamento introduce importanti elementi di novità. Non vuole più affidarsi esclusivamente alla forza e, grazie alle sue buone qualità politiche, riesce a trovare un modo per assicurare la necessaria stabilità di governo all’impero senza ricorrere alle armi. Così, nel 286, decide di dividere il potere con un suo collega d’armi, un certo Massimiano (286-305), uomo rozzo e semianalfabeta, padre di Massenzio, cui affida l’Occidente, riservando a sé l’Oriente. Nel complesso, il giudizio che possiamo esprimere sugli imperatori di questo periodo non può essere del tutto negativo: il più delle volte si è trattato dei buoni soldati che, in un momento difficile, sono riusciti a puntellare un impero traballante, preservandolo dal caos totale.
Intanto, verso il 280, Costanzo incontra Elena, una fervente cristiana, che è impiegata come inserviente di osteria, lavoro ritenuto non adatto ad una donna perbene, dalla quale ha un figlio, Costantino (ca. 280). Per ragioni di carriera, nel 289 Costanzo ripudia Elena e sposa Teodora, figliastra di Massimiano, dalla quale ha altri tre figli e tre figlie. Nel 293, per rendere più agile l’amministrazione dell’impero, vengono nominati due cesari, uno dei quali è il suddetto Costanzo, che ottiene le province della Gallia e della Britannia, l’altro è il generale Galerio, un ex-mandriano, che prende in isposa Valeria, figlia di Diocleziano, e assume il comando dell’Illiria e dei Balcani.
L’esistenza di quattro sovrani, due augusti, di rango superiore, e due cesari, di rango inferiore, dovrebbe rendere più difficile l’azione di eventuali usurpatori e più tempestiva la risposta dell’impero ad eventuali minacce, in qualunque regione originate. La tetrarchia è, in pratica, una risposta alla sete di stabilità politica. che proviene da ogni parte sociale, dopo che i ripetuti tentativi di fondare una dinastia, da parte degli aristocratici, sono falliti. Ma Diocleziano fa di più: raddoppia le province dell’impero, portandole da cinquanta a cento, nell’intento di indebolire i governatori locali e renderli incapaci di ordire rivolte. A tutta prima, il nuovo sistema sembra funzionare e rende possibile il conseguimento di rilevanti successi militari e l’attuazione di importanti riforme sociali, come quella che, allo scopo di evitare che le campagne e l’esercito si spopolino, impone ai figli di continuare il lavoro dei padri.
Da questo momento, il figlio del contadino è tenuto a fare il contadino, il figlio del soldato il soldato, e così via. Insomma, il mestiere si eredita. Questa legge ha conseguenze assai negative per i contadini, che rimangono prigionieri a vita della terra che coltivano, ossia, come verranno chiamati in seguito, servi della gleba (gleba = zolla, terra). L’unico modo di sfuggire a questa condizione è quello di rifugiarsi in luoghi isolati e cercare di sopravvivere senza farsi notare, come l’eremita, oppure darsi al brigantaggio.
Roma non si espande più da tempo e i soldati non possono più contare sui bottini di guerra, mentre la loro paga appare inadeguata a compensare i sacrifici richiesti e il rischio della vita, e, pertanto, il loro morale è molto basso. Gli elevati costi dell’esercito possono essere coperti solo con un inasprimento delle tasse insostenibile per gran parte della popolazione, che è già afflitta dalla miseria. Solo le grandi proprietà assicurano un elevato reddito ai già ricchi padroni, mentre è sufficiente un breve periodo di carestia per mandare in crisi i piccoli contadini, i quali sono così scontenti delle proprie condizioni che molti di loro rinunciano volontariamente alla propria libertà e vanno a lavorare come servi presso i latifondi dei ricchi signori, dove ottengono cibo e protezione. Nasce così la figura del contadino-servo o colono, che si affianca a quella dello schiavo. Schiavi e coloni vivono sostanzialmente allo stesso modo, cioè in miseria, con la differenza che i coloni vengono chiamati alle armi qualora vi sia la necessità, gli schiavi no. Ormai, le uniche categorie di lavoratori che possono permettersi una vita agiata sono gli artigiani, i bottegai e il clero.
Nel 305 Diocleziano, stanco e malato, decide, caso unico, di ritirarsi a vita privata, e invita il collega Massimiano a fare altrettanto. Al loro posto si insediano Costanzo I (305-306) e Galerio (305-311). Adesso bisogna nominare i cesari. In base al principio dinastico, i naturali candidati sono Costantino e Massenzio, ma si preferisce quello del merito e, pertanto, si decide di nominare un certo Massimino Daia, nipote di Galerio, che si insedia in Egitto e in Siria, e un tale Severo, un oscuro ufficiale, cui viene affidato il governo dell’Africa, dell’Italia e della Pannonia. La tetrarchia è ripristinata, ma la situazione appare squilibrata, perché la fetta più grossa del potere è nelle mani di Galerio, il quale può anche contare sull’appoggio dei due cesari, mentre Costanzo rappresenta la parte più debole.
Intanto, i Pitti invadono la Britannia e Costanzo, dovendoli respingere, chiede a Galerio di poter riavere il figlio Costantino, che si trova ancora nella sua corte. Seppur con riluttanza, Galerio acconsente. Costantino ha circa 25 anni ed è un uomo fiero e orgoglioso, provvisto delle doti naturali del capo e di una smisurata ambizione. Il suo fisico è possente e il coraggio non gli manca e, anche se non è istruito, è sufficientemente intelligente per capire l’importanza della cultura. I suoi tre fratellastri, Giulio Costanzo, Dalmazio e Annibaliano, sono di tutt’altra pasta e non sono animati dalla stessa ambizione. Costantino raggiunge il padre agli inizi del 306 e partecipa alla vittoriosa guerra contro i Pitti, avvalendosi del contributo di un grosso contingente di Alemanni, primo esempio di un esercito barbaro, che combatte a fianco dei romani.
Pochi mesi dopo Costanzo muore e le truppe acclamano augusto Costantino (306-337). Galerio è disposto a concedergli solo il titolo di cesare, e Costantino accetta. Questa volta è Massenzio a frsia acclamare augusto dalle truppe (306), associando al regno il padre Massimiano. Severo gli muove contro, ma viene sconfitto e messo a morte. Adesso si profila una guerra civile tra Galerio da una parte, Massimiano e Massenzio dall’altra, con Costantino in mezzo a fare da ago della bilancia. Entrambe le parti cercano di avvicinare a sé Costantino, Massimiano dandogli in isposa la figlia Fausta, Galerio riconoscendolo augusto, ma ciò che riescono ad ottenere è solo la sua neutralità. Così, Costantino non si muove quando Galerio entra in Italia e assedia Roma per poi levare le tende e ritornare in Oriente, quando si accorge che la sua impresa è impossibile, a causa delle diserzioni fra i suoi soldati, che sono corrotti da Massenzio. Inutilmente Massimiano cerca di convincere il vecchio Diocleziano a ripristinare il loro potere imperiale.
Per risolvere l’intricato quadro politico, nel 308 gli augusti e i cesari si riuniscono, insieme a Diocleziano, e si rimettono al suo giudizio. Le decisioni di Diocleziano sono le seguenti: in Oriente, Galerio rimane augusto e Massimino Daia cesare; in Occidente, il titolo di augusto va a Licinio (308-324), un ufficiale di Galerio, uomo ambizioso e spietato, quello di cesare a Costantino. Massimiano viene dichiarato decaduto dal ruolo e Massenzio proclamato usurpatore. A Costantino viene chiesto di rinunciare al titolo di augusto, ma questi rifiuta. Ormai ci crede e, non sentendosi inferiore a nessuno dei suoi avversari, vuole giocare fino in fondo la sua partita. Non gli dispiacerebbe di fondare una propria dinastia: l’unico problema è quello di non discendere di nobile stirpe, ma non sarà difficile risolverlo in qualche modo. Anche Massimiano rientra in corsa, ormai senza il figlio, e si fa proclamare imperatore dai suoi soldati, proprio ad Arles, nel territorio di Costantino, il quale interviene e lo costringe alla resa: in quell’occasione, non è chiaro se Massimiano viene indotto al suicidio o fatto uccidere dal genero (308).
Da questo momento Costantino imprime una svolta alla sua politica e punta ormai direttamente al potere solitario, ed ecco saltare fuori la sua discendenza dall’imperatore Claudio il Gotico, che lo pone ad un livello più elevato rispetto ai concorrenti e lo legittima, lui solo, a governare. Costantino confida nella buona sorte e, soprattutto, sull’appoggio del dio dei cristiani, ai quali consente la libertà di culto (311). Intanto muore Galerio (311) e ne risulta la seguente situazione: Costantino ha le Gallie (Gallia, Britannia e Spagna), Massenzio l’Italia e l’Africa, Licinio la Pannonia, Massimino Daia l’Oriente. Costantino trae dalla propria parte Licinio dandogli in sposa la sorella Costanza, mossa che induce Massimino a riconoscere Massenzio, e scende senza indugio in Italia prima che Massenzio possa ricevere aiuti dall’alleato orientale. Grazie ad una brillante e fulminea azione, Costantino giunge in vicinanza di Roma e, nei pressi del Ponte Milvio sul Tevere, ingaggia battaglia contro il suo nemico, che rimane sconfitto e muore, mentre fugge, annegato nel fiume (312). La lotta fra i due viene anche vissuta come lotta fra cristianesimo e paganesimo, e Costantino si conferma nell’idea che il dio dei cristiani è veramente grande e che quella religione va sostenuta ad ogni costo.
Nel 313, morto Massimino, rimangono solo in due, Costantino in Occidente e Licinio in Oriente, a contendersi il potere. I due prendono a combattersi per la supremazia, ma giungono infine ad un accordo, quello di dar vita a due dinastie. Entrambi scelgono come cesari i loro figli ventenni, rispettivamente Crispo e Liciniano (317) riproponendo, in forma dinastica, la vecchia tetrarchia. Dopo qualche anno i due riprendono a combattersi e, alla fine, ha la meglio Costantino, che può contare sul valido sostegno di Crispo, il quale rivela doti di valente condottiero. Da questo momento (323) Costantino è imperatore unico e incontrastato, e può dedicarsi alle questioni politiche e, soprattutto, a quelle religiose, che costituiscono il suo “hobby” preferito. Costantino, dunque, fa propria la causa del cristianesimo, anche se non sembra essersi del tutto liberato della sua natura pagana. Egli, infatti, è certo che la sua affermazione è legata all’appoggio del Dio dei cristiani, ma anche alla Fortuna, alla quale, riconoscente, fa erigere una statua. Ormai è il capo incontestato e il suo potere è legittimato sia dalla forza delle armi che dal Dio dei cristiani, Può fare quello che vuole. Può eliminare, per esempio, persone a lui scomode o non gradite. Così, nel 325, fa uccidere Licinio, insieme al figlio Liciniano, e, l’anno seguente, fa giustiziare il figlio Crispo e la moglie Fausta, ingiustamente accusati di cospirazione.

2.11. I barbari nel III secolo

Le guerre civili che divampano a partire da Massimino, da un lato indeboliscono l’impero e lo rendono più vulnerabile alle incursioni dei barbari, che si vanno facendo più incisive e devastanti, dall’altro induce i generali romani a ricorrere in misura crescente all’arruolamento massivo di milizie barbariche. Si tratta di “bande mercenarie comandate da capi propri” (BARBERO 2007: 56), che si vendono al migliore offerente e diventano mine vaganti quando non sono impegnate in azioni di guerra. La politica di forza attuata da Aureliano non si rivela all’altezza del compito e i barbari continuano ad esercitare una fastidiosa pressione dall’esterno, tanto da indurre lo stesso imperatore ad abbandonare la Dacia e a ritirarsi al di qua del Danubio, avviando nel contempo opere di difesa.

2.10. I cristiani nel III secolo

Col passare degli anni, grazie ad un sincero e diffuso sentimento di solidarietà, le singole comunità cristiane accumulano dei patrimoni considerevoli, che comprendono case, campagne, centri di ricovero, ospedali, cappelle e liquidità. Al fine di poter amministrare meglio il patrimonio e l’ufficio, il vescovo di Roma, Fabiano (236-250), suddivide la città in sette distretti o diaconie, ciascuno dei quali viene affidato ad un diacono. È un momento magico per la comunità cristiana dell’Urbe, che raggiunge il suo massimo sotto l’imperatore “cristiano” Filippo l’Arabo. Per la verità, a parte le annose questioni di carattere dottrinale, c’è un problema, che inquieta alcuni vescovi, come Cipriano, e che consiste in una certa rilassatezza dei costumi: cessato il fervore dei primi decenni, che sono segnati dall’attesa di un’imminente parusia, i cristiani hanno cominciato a condurre una vita “normale”, quasi sovrapponibile a quella degli altri cittadini di Roma, e hanno accumulato patrimoni considerevoli, tant’è che la carica di vescovo è vista adesso come un obiettivo allettante per molte persone ambiziose e senza scrupoli. Le principali conseguenze sono decadimento del tenore morale dei quadri dirigenti e la politicizzazione della religione, che però non sono ancora considerati problemi allarmanti. C’è ancora un abisso tra questo mondo e quello romano. E così sarà per tutto il terzo secolo e parte del quarto.
Fin qui, i cristiani hanno potuto esprimere tranquillamente il loro modello di vita e hanno creato una formidabile rete di solidarietà, che li mette al riparo dal rischio di solitudine e abbandono: è una sorta di assicurazione globale, che li pone in una condizione di vantaggio rispetto agli altri cittadini, specie in un momento di crisi generale dell’impero, rendendoli oggetto di ammirazione e di invidia. Qualcuno però li sospetta di tradimento della causa dello Stato e vede in essi un fattore non secondario della crisi generale. Si spiegano così le persecuzioni nei loro confronti da parte di Decio e di Valeriano.
Dopo le persecuzioni, può iniziare per i cristiani un nuovo periodo di pace, durante il quale le chiese continuano ad organizzarsi sempre meglio e ad irrobustirsi economicamente.
All’epoca di San Cipriano, vescovo di Cartagine (249-258) e padre della Chiesa, è attuale la questione di coloro che, avendo abiurato la propria fede per paura delle persecuzioni, si dichiarano pentiti e chiedono di essere riammessi nella chiesa. Sono i cosiddetti lapsi. Su di loro le opinioni dei vescovi sono contrastanti. Da parte sua, Cipriano è dell’avviso che essi debbano ricevere un nuovo battesimo, mentre Stefano, vescovo di Roma, ritiene sufficiente una procedura più semplice. È in occasione di questa disputa che il vescovo di Roma, Stefano I (254-7), si appella per la prima volta al famoso passo di Matteo (16,18-19), ma Cipriano non si piega. Il fatto è che, a metà del III secolo, ancora non si sa nulla del primato petrino. È vero tuttavia che, a partire dal 258, la memoria di Pietro e Paolo inizia ad essere celebrata congiuntamente, il 29 giugno, a testimonianza del posto centrale occupato dai due apostoli nell’autocoscienza della chiesa di Roma (DUFFY 2001: 33). Cipriano ha un’elevata concezione dell’autorità del vescovo, ma non accetta l’idea di un papa: “nessuno di noi si pone come vescovo di vescovi o esercita poteri da tiranno per portare, con la forza, i suoi colleghi all’obbedienza” (DUFFY 2001: 39). Per il momento sono solo schermaglie: nulla di serio. Si va avanti come sempre. La chiesa di Roma gode di un indubbio prestigio, ma la sua autorità non è ancora ben definita.

2.9. Da Caracalla a Carino

A Severo succedono i due figli Caracalla e Geta. Sbarazzatosi del fratello e divenuto imperatore unico, Caracalla (211-217) tenta di mettere al sicuro la legittimità del suo potere ricorrendo ad un vecchio stratagemma, la divinizzazione, anche se ultimamente esso ha mostrato di funzionare poco. Si identifica perciò col dio sole e si atteggia a monarca orientale. Ma non gli basta. Infatti, dopo aver concesso la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, vuole emulare Alessandro il Grande e si lancia in una impossibile conquista del mondo. Gli piacerebbe essere ricordato come il dispensatore della cittadinanza universale. Purtroppo per lui, non riesce a realizzare il suo disegno, e anzi la morte in una congiura, ordita dal prefetto pretorio Macrino (217-8), che gli succede. Poi è la volta di Eliogabalo (218-222), un personaggio dai modi effeminati, anch’egli invasato dalla fede nel dio sole, che viene trucidato dai suoi soldati. A chiudere la dinastia severa è Alessandro Severo (222-235), un giovane di personalità debole e succube della madre Giulia Mamea, che, tutto sommato, governa con moderazione. Viene ucciso dai soldati di Gaio Giulio Vero, detto “il Trace”, che diventerà imperatore col nome di Massimino I. Chi è costui?
Massimino I (235-238) è un uomo di umili origini (figlio di un contadino goto e di una donna alana), che ha intrapreso la carriera militare iniziando da soldato semplice. Di corporatura alta e massiccia, Massimino incarna la figura del tipico soldato, semplice, rude e pragmatico. Poco incline all’arte politico-diplomatica, alle formalità burocratiche e ai sottili giochi di potere, egli disprezza il senato, come del resto anche il senato prova bassa stima per lui e gli è ostile. Dal momento che popolazioni barbare minacciano l’impero, Alessandro Severo avverte il bisogno di un esercito forte e affida a Massimino, un valente soldato, il comando delle reclute, affinché ne faccia dei prodi guerrieri. E sono proprio queste reclute che uccidono Severo insieme a sua madre e proclamano imperatore Massimino, il quale, non avendo altra legittimazione che le spade dei suoi soldati, punta tutto sulla forza, dimostrando invero delle buone qualità di condottiero. In più occasioni sconfigge le orde barbariche di Germani, Sarmati e Daci, ma, per sostenere le crescenti spese militari, si vede costretto ad imporre nuove tasse, che carica soprattutto sui più ricchi esponenti della classe senatoria, i quali rispondono nominando un altro imperatore. Massimino muove allora col suo esercito alla volta dell’Italia, ma, durante la marcia di avvicinamento, i suoi stessi soldati, che si vedono sottoposti ad un impegno molto gravoso in cambio di poche gratificazioni, stanchi e affamati, lo uccidono (238).
Con Massimino ha inizio un periodo di anarchia militare e di guerra civile, che si protrarrà fino al 284, mentre, nel contempo, l’impero deve difendersi da nuovi attacchi da parte dei barbari e dei persiani. In questo periodo, i generali e altri uomini influenti, tentano la scalata al trono, come se fosse una bella tavola imbandita o una splendida torta, che ognuno vuole tutta per sé. In pochi anni, ad indossare la porpora di imperatore, si succedono Gordiano I (238), un ricco proprietario terriero, il di lui figlio, Gordiano II (238), i patrizi Balbino (238) e Pupieno (238), Gordiano III (238-244), nipote di Gordiano I, tutti morti assassinati o in azioni di battaglia. Poi è la volta di Flilippo l’Arabo (244-249), un uomo senza scrupoli, accusato di avere ordito l’assassinio del prefetto del pretorio e di Gordiano III, dei quali ha preso il posto. Il suo intento è quello di fondare una propria dinastia, ma, nella lotta per il potere, si scontra con il generale Traiano Decio, che lo sconfigge e lo uccide, succedendogli.
Decio (249-51) è consapevole che bisogna fare qualcosa per sollevare l’impero dalla crisi che lo divora. È convinto che bisogna innanzitutto rendere stabile il potere e, a tal fine, si propone di fondare una dinastia. È convinto altresì che un maggiore coinvolgimento dei cristiani potrebbe costituire un primo passo verso la ripresa. Decide allora di verificare la loro fedeltà all’impero e, a tal fine, emana un editto che impone ad ogni suddito di offrire un sacrificio agli dèi di Roma davanti ad un’apposita commissione, che rilascia a quanti accettano uno speciale libellus, cioè salvacondotto. Chi si rifiuta, invece, viene punito con la tortura, la confisca dei beni, la prigione e perfino la morte. È l’inizio di una dura persecuzione dei cristiani, molti dei quali rinnegano la propria fede: sono chiamati lapsi, ossia “caduti” nell’idolatria. Ma i cristiani costituiscono ormai una realtà ben radicata nell’impero e resistono. Nel 252 Cipriano scrive: “Non temiamo di essere uccisi, quando sappiamo che chi rimane ucciso riceve in premio la corona [dell’immortalità]” (Lettera al popolo di Tibari, 3). Per loro fortuna, ben presto Decio rimane ucciso in uno scontro coi barbari.
I generali Treboniano Gallo (251-253) e Emiliano (253), che succedono a Decio, sono entrambi assassinati ed escono ben presto di scena. Viene, quindi, acclamato imperatore il generale patrizio Valeriano (253-260), il quale associa al governo il figlio Gallieno, con l’evidente intento di fondare una dinastia. Purtroppo per lui, caso unico nella storia degli imperatori romani, viene catturato dai persiani e muore in prigionia fra indicibili maltrattamenti e umiliazioni. Il successore, Gallieno (253-268), trascorre il suo regno continuamente alle prese con le incursioni di Alamanni e Goti. Per la prima volta, questi barbari, soprattutto i Goti, entrano in contatto con la religione cristiana, attraverso i romani loro prigionieri, e questo seme è destinato a dare frutti. Dopo numerosi tentativi di usurpazione, alla fine Gallieno viene assassinato in una congiura, pare con la complicità dei due futuri imperatori: Claudio il Gotico e Aureliano. Claudio (268-270) si rivela un buon generale, ma deve soccombere alla peste.
Nonostante sia figlio di un povero contadino il lirico, Aureliano (270-5), riesce a fare una rapida e sorprendente carriera militare, che gli dischiude le porte del trono, proprio in uno dei momenti più drammatici della storia dell’impero. “Straordinaria è l’energia che seppe sprigionare in quel quinquennio, nel quale lottò su tutti i fronti cogliendo una lunga serie di successi grazie a una vitalità senza pari e a una velocità negli spostamenti che trova pochi eguali nella storia della guerra” (FREDIANI 2005: 52). Fa di tutto per evitare la disgregazione dell’impero e si oppone validamente agli attacchi dei barbari, anche se non può evitare la perdita della Dacia, che va ai goti. Sentendo che la stessa città di Roma è in pericolo, Aureliano si preoccupa di fortificarla e la cinge con un’imponente cerchia di mura. Con lui ha inizio una fase di ripresa dell’impero che raggiungerà il suo culmine con Costantino il Grande. Muore assassinato.
I successivi imperatori sono due fratelli di rango patrizio, Tacito (275-276) e Floriano (276). Anche loro vorrebbero fondare una dinastia, ma muoiono anzitempo, il primo in circostanze dubbie, il secondo assassinato dai propri soldati, che vogliono così mettere fine al rischio di guerra civile, che si sta profilando tra Floriano e il migliore dei generali di Aureliano, Probo (276-282), personaggio di umili origini, che viene acclamato imperatore dalle truppe: dimostrerà doti di valido condottiero, prima di essere ucciso dai suoi stessi legionari. Segue l’ennesimo tentativo di instaurare una dinastia da parte del generale patrizio Caro (282-283), che associa al governo i due figli, Carino e Numeriano. Caro muore, pare, colpito da un fulmine, e gli succedono Carino (283-285), in Occidente, e Numeriano (283-284), in Oriente.

2.8. Il vescovo di Roma fra II e III secolo

A partire dalla fine del II secolo comincia a diffondersi la consuetudine che i vescovi di ogni provincia si riuniscono due volte all’anno, in primavera e in autunno, per scambiarsi ogni genere di informazioni. Solo all’imperatore è riconosciuta la prerogativa di convocare concili ecumenici e sinodi straordinari. Ovviamente il vescovo della capitale della provincia gode di un maggior prestigio e di una superiore autorità, e lo stesso vale per i vescovi delle città più importanti. È il primo passo verso un’organizzazione centralistica e piramidale. Da questo momento, la Chiesa comincia ad assumere la forma di “una grande repubblica federale” (GIBBON 1967: 435).
La pluralità di dottrine cristiane che circolano nell’Impero tra in II e i III secolo è causa di imbarazzo fra i vescovi, alcuni dei quali lamentano la mancanza di un’autorità centrale e intendono correre ai ripari, creando i presupposti dottrinali per una sua costituzione. Alcuni passi del Nuovo Testamento sembrano deporre per un primato dell’apostolo Pietro, e ciò suggerirebbe di trasferire questo primato ai successori di Pietro. Ma chi sono costoro? L’unico dato certo, secondo una tradizione, è che Pietro ha trovato la morte a Roma. Tuttavia, non vi sono prove che egli sia stato vescovo di quella città e, anzi, secondo i dati storici, non ci sono stati vescovi a Roma per almeno mezzo secolo dopo Pietro. Il fatto è che né Pietro né Paolo ha fondato la chiesa di Roma, dal momento che i cristiani erano presenti in quella città ancor prima del loro arrivo (DUFFY 2001: 16). Inoltre, anche Paolo ha subito il martirio a Roma, e Paolo ha il carisma del vero fondatore della religione cristiana. Su questi due pilastri è possibile elaborare un’ideologia centralistica del cristianesimo.
A provarci, fra i primi, è Sant’Ireneo, vescovo di Lione (177-202 ca.), il quale, dopo aver affermato che l’autorità della chiesa di Roma dipende “dall’essere stata fondata da due apostoli, Pietro e Paolo, e non dal solo Pietro” (DUFFY 2001: 16), indica in Pietro il primo vescovo della città. Inoltre, allo scopo di dare coerenza alla sua teologia, Ireneo si preoccupa di indicare i presunti successori di Pietro e Paolo ed elenca i nomi di Lino, Anacleto, Clemente, Evaristo, Alessandro, Sisto e, infine, quello del proprio contemporaneo Eleuterio. C’è il sospetto che si tratti di una ricostruzione retrospettiva e non storica, fondata solo su esigenze teologiche, come dimostrerebbe il fatto che il Pastore di Erma, un’opera composta a Roma proprio in quel periodo, parla genericamente di “capi” o “anziani” della chiesa, ma non di un capo dei capi (DUFFY 2001: 26). Insomma, ala fine del II secolo, quando i vescovi sono indiscutibilmente le autorità della Chiesa, non esiste ancora un papa.

2.7. Da Marco Aurelio a Settimio Severo

Nei due secoli che vanno da Augusto alla morte di Marco Aurelio l’imperatore è eletto dal senato e dal consenso dei soldati e non si registrano guerre civili. In questo periodo di relativa calma e stabilità, possono esprimere la propria creatività, in campo letterario, personaggi come Apuleio (125-180) e Gellio (122-180), ma, soprattutto, possono esprimersi in campo scientifico pensatori del calibro di Tolomeo (90-168) e Galeno (130-200): il primo raccoglie nel suo Almagesto le acquisizioni degli astronomi che lo hanno preceduto, un po’ come aveva fatto Euclide per la matematica; il secondo scopre la differenza tra sangue venoso e arterioso, ma, non essendo in grado di vedere i capillari e quindi di comprendere la fisiologia dell’apparato circolatorio, spiega la presenza di sangue nel cuore destro e sinistro, supponendo la presenza nel setto interventricolare di minuscoli fori invisibili ad occhio nudo.
Marco Aurelio ripropone il principio dinastico, e così gli succede il figlio Commodo (180-192), il quale però muore, assassinato, senza lasciare eredi. Si apre allora una nuova fase, che si prolungherà fino alla caduta dell’impero, che sarà caratterizzata dalla questione della legittimazione del potere politico. Non essendo in grado di trovare una soluzione giuridica alla questione, e nemmeno religiosa, dal momento che i tempi sono cambiati e il principio della divinizzazione non sembra più funzionare, non rimane che la forza: il potere politico dev’essere conquistato e mantenuto con la forza. In questa fase acquistano particolare importanza la guardia pretoriana e le legioni. Dal punto di vista culturale si tratta certo di un regresso, un ritorno alla protostoria, solo che adesso Roma dispone di grandi eserciti, che sono dislocati nei punti nevralgici dell’impero, i cui generali si sentono ugualmente in diritto di aspirare al potere.
Si apre allora un periodo di guerre civili (193-197), caratterizzate dalla lotta intestina fra i massimi aspiranti al potere, cui pone termine Settimio Severo (193-211), un militare di carriera, appartenente alla classe equestre, dunque un non-nobile, che al momento è governatore della Pannonia Superiore, il quale, dopo essersi fatto acclamare imperatore dai suoi soldati e dopo avere eliminato i suoi diretti avversari, diviene unico padrone dell’impero (197). Severo è perfettamente consapevole che il suo potere è stato conquistato con la forza e sa che può conservarlo solo con la forza. Coerentemente, egli rinforza l’esercito, aumenta la paga dei soldati ed eleva al rango di massimo organo politico l’Assemblea dei suoi generali, instaurando una sorta di dittatura militare. Severo si preoccupa di rinforzare le aree di confine, promuovendovi lo stanziamento di soldati, con le loro famiglie, cui viene assegnato un lotto di terreno: quei soldati-contadini sono pronti a prendere le armi e a difendersi da eventuali attacchi dei barbari e, così facendo, difendono anche l’impero, rendendolo più saldo. Severo non trascura di guadagnarsi l’appoggio del popolo, con regalie e donazioni, né si culla sugli allori, ma rimane sempre vicino al suo esercito, che è impegnato incessantemente in campagne militari, per sua fortuna vittoriose, nell’ultima delle quali trova la morte. Grazie all’appoggio dell’esercito e alle sue qualità di condottiero e di uomo politico, Severo riesce anche ad imporre la propria dinastia, che gli sopravvivrà fino al 235.
Le comunità cristiane sono ormai ben organizzate, intorno alla figura di un vescovo, dispongono di una propria letteratura religiosa, ma anche di una propria filosofia da contrapporre a quella pagana e sono convinti di rappresentare il miglior modello di vita possibile. Tutto bene, dunque? Non precisamente. Ci sono almeno due grossi problemi, che affliggono il cristianesimo. Il primo è il mancato riconoscimento da parte dello Stato, le cui conseguenze vanno dalle requisizioni di beni alle persecuzioni. Così, nonostante i donativi dei fedeli, le chiese non riescono ad arricchirsi oltre un certo limite e i cristiani devono temere per le proprie vite.
Il secondo problema è di natura interna e riguarda l’organizzazione dottrinale. Il fatto è che, nel periodo che sta a cavallo fra II e III secolo, manca un’autorità centrale e la cristianità consiste di una quantità di chiese indipendenti, ognuna delle quali ha sviluppato una propria elaborazione teologica della fede. La conseguenza è che circolano dottrine diverse, tutte avallate dall’autorità di un vescovo, tutte ugualmente cristiane. Ora, è impossibile che dottrine diverse siano ugualmente vere, dal momento che, come si pensa, la verità è una. Contro il rischio di frammentazione e di caos, si leva allora la voce del vescovo di Cartagine, Cipriano (ca. 210-258), il quale esorta tutti i vescovi all’unità dottrinale, perché una è la verità, una è la chiesa, “uno è l’episcopato” (L’unità della Chiesa, 5). Da qui nasce la necessità di distinguere la vera dottrina cristiana fra le tante in circolazione. Ma qual è la vera dottrina e quali quelle false? In mancanza di un vescovo-capo, che decida per tutti, è impossibile dirlo, e così ognuno si tiene la sua verità.

2.6. I barbari ai tempi di Marco Aurelio

Le popolazioni che ai confini dell’impero vivono allo stato tribale, i cosiddetti barbari, non sono in grado di competere coi romani e devono subire le loro politiche, che, di norma, sono dettate dalle circostanze e rispondono ad esigenze legate alla sicurezza, all’andamento demografico, a questioni economiche o che si inseriscono in un progetto di espansione. A volte vengono attaccati e massacrati, altre volte vengono catturati, deportati, insediati in aree spopolate, obbligati a lavorare la terra o ad arruolarsi nell’esercito. Non sempre sono i romani a prendere l’iniziativa: talvolta è un capotribù che, spinto da condizioni avverse (carestie, accesa rivalità con altre tribù, pressione da parte di nemici esterni), chiede ai romani di essere accolto, offrendo loro le proprie braccia. La collocazione maggiormente richiesta, sia dai barbari che dai romani, è nell’esercito, il quale rappresenta “un importante canale di promozione sociale” (BARBERO 2007: 17), consentendo al barbaro di accedere alla cittadinanza ed integrarsi. I contingenti barbarici sono comunque limitati e sotto il pieno controllo degli ufficiali romani.
Sotto il regno di Marco Aurelio le tribù barbariche cominciano ad unirsi fra loro sotto un capo comune e assumono l’aspetto di popolazioni alquanto numerose e temibili e, così compattati, si fanno più intraprendenti e penetrano nel territorio romano a scopo di razzia, oppure chiedono di essere accolti in massa e impiegati come coloni o arruolati come guerrieri. All’imperatore non resta che scegliere fra l’uso delle armi o quello della diplomazia, fra muovere le sue legioni verso la guerra o cedere alle richieste di quei disperati e accoglierli nel proprio territorio da una posizione di forza e impiegarli nel modo a lui più opportuno. Alla fine sceglie questa seconda via e intere popolazioni barbariche possono entrare pacificamente in suolo romano, in condizione di sottoposte, e insediate qua e là, secondo le disposizioni dell’imperatore e tenute sotto controllo dai funzionari provinciali e dalle loro guarnigioni. In questo modo, non solo si evitano guerre inutili e dispendiose, ma anche si sfruttano la manodopera e i servigi militari dei nuovi venuti, i quali tra l’altro devono versare un tributo, come gli altri cittadini, e quindi contribuiscono a rimpinguare le casse dello Stato. Se qualche capo barbaro tenta di sollevarsi contro i romani, questi non esitano ad assoldare un altro capo barbaro e lo muovono contro al primo, facendo in modo che si neutralizzino a vicenda e senza dover scomodare le legioni. Questa politica si rivela valida, tanto che verrà praticata da tutti gli imperatori, almeno fino a Teodosio.