lunedì 7 settembre 2009

2.5. Il cristianesimo nel II secolo

Sotto Adriano, scoppia un’altra guerra romano-giudaica, che si conclude con la definitiva distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, e con la diaspora degli ebrei (135). Questa volta i cristiani accusano il colpo. Sono trascorsi più di cento anni dalla morte di Gesù e più di ottanta da quando Paolo ha promesso: “noi saremo per sempre con il Signore”. Come spiegare questo ritardo, che ormai ha assunto il significato di una promessa non mantenuta? E come spiegare la distruzione del tempio di Dio, che era proprio il centro attorno al quale avrebbe dovuto nascere il nuovo regno? Le soluzioni possibili sono due. La prima è quella di rigettare quella fede come evidentemente falsa e ritornare al paganesimo. A questa soluzione si oppone il fatto che la fede è per sua natura irrazionale e non sempre valuta la realtà delle cose secondo una logica stringente e rigorosa. Inoltre i cristiani hanno imparato ad apprezzare il loro stile di vita, al di là di ogni considerazione di tipo religioso, e, ritenendolo superiore a quello dei pagani, non intendono abbandonarlo. Preferiscono allora la seconda soluzione, che è quella di elaborare una teologia in grado di reinterpretare il corso degli eventi in forma coerente. Si puntualizza che “davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2Pt 3,3-8). “In realtà il Signore non sta ritardando, piuttosto aspetta il momento secondo un calendario diverso” (SANDERS 1995: 184). Il cristianesimo –si va precisando– non è una fede nell’imminente avvento del regno di Dio, quanto piuttosto credere che Cristo è il figlio di Dio e vivere secondo il modello che egli ci ha lasciato, in prospettiva di un giudizio universale, che avverrà in un tempo imprecisato.
Da questo momento, il cristianesimo finisce di essere caratterizzato dalla trepida attesa del regno e diventa essenzialmente una dottrina teologica, ossia un’interpretazione della “buona novella”, anche se ciò comporta dei problemi che rischiano di mandare in crisi l’intero movimento cristiano. Adesso che le questioni dottrinali hanno acquistato importanza, ci si comincia ad accorgere che i singoli vescovi hanno elaborato teologie sensibilmente diverse e cominciano a fioccare accuse vicendevoli di eresia. Poiché manca un capo dei vescovi, si fa fatica a trovare una soluzione alle contese, che si trascinano senza fine e generano una confusione terribile.

2.5.1. La controversa questione cristologica
Oggi la chiesa romana crede che Gesù Cristo sia una sola persona con due nature, umana e divina, ma, nei primi secoli della nostra era, le opinioni al riguardo furono molteplici e contrastanti. Per Ario Gesù è solo uomo, per i monofisiti è solo Dio, per Marcione è sostanzialmente Dio, ma con una parvenza umana, per Nestorio ha due nature e due persone. La situazione era così ingarbugliata che, alla fine, dovette essere risolta con la forza. Ciò avvenne ai tempi di Costantino, che chiuse per sempre la questione, trasformandola in dogma.

Quella cristologia è solo una delle tante controversie che agita le comunità cristiane, le quali, ora che il fervore della parusia si è affievolito, si trovano a dover mettere in piedi un sistema dottrinale ordinato e coerente. Per di più, devono difendersi dalle critiche che arrivano da qualche intellettuale pagano, che accusa i cristiani, per esempio, di indebolire l’Impero col loro rifiuto di prestare il culto all’imperatore e di prendere le armi. Quale delle teologie circolanti è coerente con la predicazione di Cristo? Cosa rispondere alle critiche dei pagani? Da qui nasce la necessità che qualcuno definisca la vera dottrina cristiana e intervenga in sua difesa.
Di norma, il personaggio più adatto a svolgere queste funzioni è colui che amministra le sostanze materiali della comunità, ossia il vescovo, che diventa così una sorta di apostolo vivente. Egli è la guida spirituale della comunità cristiana, il punto di riferimento e l’arbitro della vera fede. Ma il vescovo non è solo. Abbiamo avuto modo di osservare come lo stile di vita dei cristiani abbia attirato molte simpatie e conversioni. Ebbene, tra i cristiani vi sono anche persone colte disposte a illustrare e a giustificare la nuova dottrina religiosa. Nasce così l’apologia, un genere letterario che, non solo spiega il modello cristiano e lo difende, ma sostiene anche, almeno implicitamente, la tesi della sua superiorità rispetto a quello pagano.
Uno di questi apologisti, Giustino (ca. 100 – ca. 165), descrive l’armonia che regna nelle tranquille comunità cristiane, che si riuniscono ogni domenica per pregare, leggere e commentare i testi sacri, e celebrare il sacramento eucaristico. Esse hanno per guida un vescovo, che non solo amministra la comunità, ma ridistribuisce i generosi donativi, che a lui affluiscono, a tutti quelli che hanno bisogno (Prima Apologia, 67). Il quadro presentato da Giustino descrive una realtà ben diversa da quella comune, che è dominata dalla superficiale ritualità del paganesimo e dove ciascuno pensa per sé. La realtà tratteggiata dall’apologista pone al centro l’individuo coi suoi bisogni, è attenta ai principi di giustizia sociale e pratica la solidarietà e la redistribuzione del reddito. Ai poveri viene garantito l’appoggio solidale e il calore umano del gruppo, insieme alla consapevolezza che la loro è una condizione speciale, gradita a Dio e della quale non ci si deve vergognare. Ai ricchi si offre l’opportunità di esercitare la nobile virtù della carità e di sentirsi benemeriti agli occhi di Dio e in pace con la propria coscienza. A tutti viene promessa una ricompensa, che è percepita come uno stato di eterna felicità, anche se non si sa in che cosa esso consisterà esattamente, né se troverà compimento in questa terra o in un aldilà indefinito. Qualcuno prova ad immaginarselo. Il vescovo di Lione, Ireneo (ca. 140-200), per esempio, pensa che la felicità post mortem consista nella contemplazione di Dio, che renderà gli uomini immortali e beati (Contro le eresie IV, 20,6), ma, di fatto, ognuno viene lasciato libero di immaginare qualunque altro genere di felicità.
A partire dalla seconda metà del secondo secolo, e sempre di più nei secoli seguenti, le condizioni sociali dei Romani sono così precarie e insoddisfacenti e l’impero così male in arnese, che non dev’essere difficile agli apologisti cristiani di mettere in risalto la superiorità del loro modello sociale e dei loro valori morali. Sono due realtà nettamente diverse e non v’è dubbio che, per molti aspetti e per molte persone, il modello cristiano sia preferibile, anche se, per il momento gli apologisti non ne rivendicano apertamente la superiorità. I cristiani, infatti, sono ancora una minoranza e sentono il bisogno di difendersi, più che attaccare. Perciò, rivolgendosi ai pagani, l’apologista Tertulliano (ca. 155-220) si limita a chiedere che i cristiani siano lasciati liberi di professare la loro fede (Apologetico XXIV, 1). Essi ne hanno pieno diritto, perché il loro modello di vita è esemplare.
Tertulliano può allora descrivere, con comprensibile compiacimento, lo stile di vita dei cristiani, che non esitano a mettere in comune tutti i propri beni, fuorché le donne, e, “uniti nello spirito e nell’anima”, si riuniscono per leggere e commentare le Sacre Scritture, sotto la guida di un anziano di provata virtù, scelto dalla comunità per i suoi meriti e non retribuito (Apologetico XXXIX, 3-11). C’è un abisso tra questo mondo e quello romano, e così sarà fino a Costantino. Anche se la parusia appare ormai un’idea alquanto evanescente, non sono rari i cristiani che continuano a vivere separati dal resto del mondo e lanciano velenose invettive all’indirizzo degli ostinati pagani, com’è il caso di Tertulliano: “Voi che siete amanti degli spettacoli, attendete lo spettacolo più grande di tutti, l’ultimo ed eterno giudizio dell’universo” (De spectaculis, 30). Evidentemente l’apologista crede ancora nella parusia e le sue minacce fanno presa su molti pagani, che, mossi dalla paura, decidono di convertirsi, attratti anche dai poteri taumaturgici e dello spirito di solidarietà di cui sono accreditate le chiese cristiane, che contrastano sempre più fortemente con il progressivo desolante degrado dell’impero.
Chiusi in se stessi, i cristiani offrono a Roma il minimo sostegno possibile: in particolare, rifiutano prendere parte attiva all’amministrazione civile e di arruolarsi e combattere per un Impero che non sentono loro. È l’unico punto su cui essi possono essere attaccati dai critici pagani, il loro scarso attaccamento allo Stato, ed è proprio su questo punto che si sofferma il filosofo Celso, che scrive intorno al 180. Celso critica i cristiani di scarso lealismo nei confronti dello Stato e li invita a non rifiutarsi di impugnare le armi per la causa dell’impero che, in quel momento, versa in cattive acque. I cristiani rispondono, prima con l’anonimo autore della Lettera a Diogneto, che scrive intorno al 200, e, dieci anni dopo, con Origene, ribadendo in modo fermo e deciso quanto già era noto, e cioè che i cristiani vedono se stessi come ospiti di un mondo depravato, del quale rappresentano la componente di maggior pregio, mentre, in realtà, si sentono cittadini di un altro mondo. Noi cristiani, scrive Origene, “non accettiamo gli amanti del potere” (Contro Celso, VIII, 75) e rimaniamo, per nostra scelta, contrari alla violenza ed estranei alla realtà politica dell’impero.
Intanto le comunità cristiane accumulano beni materiali, anche grazie alle donazioni da parte di cristiani facoltosi. Ma non aveva Gesù che c’è incompatibilità fra ricchezza e fede? Una delle più delicate questioni dibattute sul finire del II secolo è proprio quella relativa alla posizione dei ricchi nella chiesa. Gesù ne ha parlato così male che viene da dubitare che essi possano essere accolti nelle comunità cristiane. Eppure i ricchi, o perlomeno le persone agiate, che dispongono di beni immobili, costituiscono una parte importante nelle comunità, per le cui necessità amministrative e le attività caritatevoli, il loro contributo economico risulta prezioso. Alla questione trova un’elegante soluzione un intellettuale cristiano di spessore, Clemente Alessandrino (ca.150-215). Si, è vero, argomenta Clemente, che Gesù ha detto che solo chi abbia distribuito ai poveri le proprie ricchezze può diventare suo discepolo (Mt 19,21), ma, in realtà, egli “non comanda di buttar via il patrimonio che si ha e di separarsi dalle ricchezze, ma di cacciare dal cuore tutte le opinioni che circondano le ricchezze” (Quale ricco si salva, 11,2). Il messaggio di Clemente è rassicurante: non è necessario che il ricco si privi materialmente dei suoi averi, essendo sufficiente che egli se ne distacchi spiritualmente, la ricchezza non è un male in sé, e, anzi, il suo buon uso, a beneficio del prossimo, è motivo di merito. Per il momento, l’interpretazione clementina delle parole di Gesù viene archiviata senza tanta convinzione. Essa troverà piena accoglienza solo qualche tempo dopo, quando gli stessi vescovi saranno uomini ricchi.

2.5.2. Dal regno di Dio alla Chiesa
A causa del mancato ritorno di Cristo sulla terra e della conseguente mancata instaurazione del regno di Dio, le comunità cristiane istituiscono tante piccole repubbliche separate e indipendenti, che però si tengono fra loro in contatto. A partire dalla definitiva caduta di Gerusalemme (132), i cristiani si organizzano intorno alla figura del vescovo e parlano sempre meno del regno di Dio e sempre più di una Chiesa unita.

Figli adottivi sono anche i due successori di Adriano: Antonino Pio (138-161), il cui regno non registra rilevanti problemi e viene indicato come il punto massimo raggiunto dall’impero, e Marco Aurelio (161-180), che deve fronteggiare i minacciosi eserciti di Marcomanni e Quadi, ai quali concede di insediarsi nell’impero, di arruolarsi nell’esercito e magari fare una discreta carriera militare. Ad onta della saggezza di cui lo accredita la storia, questo imperatore-filosofo si rivela in realtà incapace di esprimere un sereno giudizio sul reale valore degli uomini che lo circondano, primi fra tutti i propri familiari, come la bella moglie, che non esita a passare da un letto all’altro, o il giovane figlio, che non sembra dotato delle virtù necessarie per reggere un impero. Marco Aurelio “ringrazia gli dèi di avergli concesso una moglie così fedele, così amabile e di una semplicità di costumi tanto meravigliosa” e non esita a promuovere i “molti amanti di lei a cariche onorevoli e lucrose” (GIBBON 1967: 82-3). Allo stesso modo, non esita ad affidare la responsabilità di un grande impero ad un inetto ragazzo, quale è suo figlio Commodo.

Nessun commento:

Posta un commento