domenica 6 settembre 2009

1.5. La schiavitù

Nella Roma monarchica non c’erano schiavi o, se c’erano, costituivano un fenomeno sociale marginale. La schiavitù inizia a diffondersi all’indomani della caduta di Veio (396) e rappresenta una nuova categoria sociale che, insieme a quella dei nexi, occupa la base della piramide sociale.
Il fenomeno della schiavitù è già da solo sufficiente a dimostrare che l’uomo si lascia guidare dal supremo principio di forza ed è disposto ad accettare tutto ciò che da quel principio deriva: l’omicidio, la strage, la rapina, le ingiustizie sociali e, per l’appunto, la schiavitù, che nasce dalla guerra. Chi perde può essere reso schiavo, viene cioè privato della libertà e dei diritti e asserviti alla volontà di un altro uomo, diventando una sorta di utensile e privato di ogni dignità. La schiavitù rispecchia la legge naturale: è giusta secondo natura. Il fenomeno della schiavitù, così come appare nella storia, deriva anche dal principio di appartenenza, il quale recita che l’individuo non ha valore per se stesso, ma secondo la famiglia e lo Stato cui appartiene. In base a questo principio, la schiavitù non è una condizione personale, ma una condizione di gruppo, che si estende a tutti i membri di una famiglia o di uno Stato, anche coloro che, singolarmente, sono gagliardi, sani e intelligenti. La schiavitù di massa è ingiusta secondo natura e secondo etica.
Dal punto di vista dell’economia generale, il lavoro servile è antieconomico, perché un uomo privo di libertà e di dignità non è motivato ad impegnarsi nel lavoro con tutte le sue energie e il suo rendimento è scarso. Per di più, è impossibile per il padrone negare ogni diritto al suo schiavo, il quale deve potersi nutrire e mantenere in salute affinché possa conservare almeno la propria vita e le proprie capacità lavorative, ma deve anche potersi riprodurre, perché il padrone possa continuare a disporre del lavoro dei suoi figli quando egli non ci sarà più. Un’economia servile è, dunque, in perdita: perde la comunità nel suo insieme e perdono anche gli schiavi. A guadagnare sono soltanto i padroni, anche se, considerando lo scarso rendimento lavorativo dello schiavo e il costo per mantenerlo in vita e consentirgli di riprodursi. Il piccolo guadagno che deriva dal lavoro di uno schiavo può diventare relativamente grande solo se lo si moltiplica per centinaia o migliaia. Alla fine, dunque, chi ci guadagna veramente sono quei pochi patrizi che possono permettersi centinaia o migliaia di schiavi. Il fenomeno della schiavitù soddisfa solo il loro interesse; per il resto è in perdita.

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