domenica 6 settembre 2009

1.4. Una società duale

I Romani non conoscono il sistema rappresentativo: da qui la necessità di istituire l’assemblea dei cittadini (comitia), che si riunisce al Campo Marzio, in un’area che non riesce a contenere tutti gli aventi diritto. Durante la repubblica, “quasi tutto dipende dai suffragi del popolo” (NICOLET 1993: 40). Ma non si tratta di vera democrazia. “Ad essere consultate sono le 35 tribù e le 193 centurie, e non, formalmente, gli individui che le compongono” (NICOLET 1993: 21). I cittadini non possono riunirsi autonomamente, né stilare l’ordine del giorno, ma devono semplicemente limitarsi a rispondere si o no alle domande che vengono loro poste. In pratica l’iniziativa e il potere sono in mano ai notabili, i quali ricorrono ad ogni mezzo pur di conquistare i voti dei partecipanti: la demagogia, le minacce, la corruzione, la distribuzione di doni.
Di fatto, il potere è nelle mani delle gentes, ossia di un esiguo numero di grandi possidenti, che vivono di rendita, i cosiddetti patrizi. Chi sono costoro? Sono le famiglie di coloro che, già dai tempi della fondazione di Roma, hanno contribuito alle vittorie militari e si sono divisi i bottini di guerra, divenendo ricchi proprietari terrieri. Sono i lontani discendenti dei trenta capi-clan che, ai tempi di Romolo, si erano spartiti il territorio conquistato e che oggi dispongono di un’estesa proprietà fondiaria, oltre che della prestigiosa carica senatoriale, e possono rivendicare diritti e doveri legati alla loro nuova condizione. Ed, effettivamente, con la caduta della monarchia, il prestigio e il potere del senato cresce, mentre rimane precaria la condizione di coloro che vivono del proprio lavoro (artigiani, contadini, commercianti), ossia i cosiddetti plebei.
La società, dunque, è divisa in due classi: da una parte i ricchi possidenti, dall’altra parte i più sfortunati, quelli, cioè, che non hanno potuto partecipare alla spartizione dei bottini, molti dei quali hanno dovuto indebitarsi per sopravvivere e, se insolvente, si sono ridotti in schiavitù: sono i nexi. I patrizi hanno un patrimonio da difendere e, pertanto, hanno interesse ad armare un esercito efficiente, che sia in grado di proteggerli da eventuali incursioni nemiche, ma che possa anche essere utilizzato come forza d’attacco, per sottomettere popoli e conquistare altre terre e altri bottini. Tutti, patrizi e plebei, sono interessati a migliorare la propria condizione, attraverso l’azione militare di offesa, ma, a conti fatti, i plebei, che costituiscono il grosso dell’esercito e che pagano il prezzo più alto in termini di vite umane, alla fine si devono accontentare di briciole, mentre i benefici maggiori vanno a vantaggio dei patrizi. Il fatto è che sono proprio i patrizi ad occupare i posti di comando ed a fissare le regole. I plebei, ovviamente, non ci stanno e, a più riprese, reclamano riforme democratiche e giungendo perfino ad incrociare le braccia ed a rifiutarsi di lavorare.
A seguito di dure lotte, i plebei riescono ad ottenere importanti conquiste, come il diritto di essere rappresentati dal cosiddetto tribuno della plebe (494), la promulgazione di leggi scritte, le cosiddette “leggi delle XII tavole” (451), che, in quanto scritte, si presume debbano essere valide per tutti; la cosiddetta funzione edilizia, cioè il diritto di presiedere alla costruzione di opere pubbliche, esclusivamente riservato a loro (449); l’abolizione del divieto di matrimonio tra patrizi e plebei (445); l’accesso dei plebei al consolato e al senato (367); l’abolizione della schiavitù per debiti (313); l’ammissione dei plebei ai sacerdozi (300); l’equiparazione dei plebisciti a leggi (287). Nonostante queste conquiste del popolo, rimarrà, in tutta la storia della Repubblica, una netta disuguaglianza tra i cittadini legata al censo. Tuttavia, la distanza fra patrizi e plebei non è incolmabile e, grazie alle riforme sociali su citate, sarà possibile per un plebeo fare la scalata al patriziato e ciò consentirà una certa armonizzazione degli interessi delle varie parti sociali e lo sviluppo di uno spirito di patria, che daranno a Roma la forza per resistere a tante situazioni difficili e per aver ragione dei suoi nemici.

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